V DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 10, 25-37


Poteva bastare la Legge per dire la necessità di amare Dio, poteva essere sufficiente la grande professione di fede di Israele che abbiamo ascoltato nella prima lettura e che il dottore della Legge conosceva benissimo… per dire il comandamento dell’amore del prossimo. E invece no.

Perché, ed è una cosa che ritorna nel nostro tempo, siamo proprio bravi a eludere e a circoscrivere l’amore di Dio e degli altri negli stretti confini del nostro microcosmo.

Non è questo quello che cercano coloro che oggi invocano un ritorno del dio della nazione, del dio della patria, del dio chiuso nei confini identitari di una cultura, di talune tradizioni, se non di presunte razze?

È curiosamente un dio che –come spesso nella storia- trova largo seguito. Certo questo dio, o meglio questa concezione di Dio, che non è nemmeno solamente dell’Occidente, è chiaramente un idolo strumentale ai fini politici, demagogici o economici che siano. Ma è anche una sorta di feticcio a uso di coloro che si sentono così rassicurati, non accettano l’inquietudine del vivere, non riescono a fare i conti con la propria umanità, per cui succede che cristiani uccidono altri cristiani, musulmani uccidono altri musulmani…

Da qui alcuni deducono che sia meglio non avere alcun dio in cui credere se in suo nome si fa ben altro che amare. In fondo le religioni, e qui raccogliamo obiezioni che vengono da due secoli di pensiero critico, producono un dio a cui i credenti si rivolgono che altro non è che un’immagine dell’uomo proiettata sullo schermo infinito dei cieli. L’uomo nell’esperienza della miseria, della delusione, del bisogno, dell’incapacità di fronte all’imponderabile proietta i propri bisogni in un Dio che si fa garanzia suprema… ed è vero: questo dio non è che una proiezione dell’uomo.

Queste obiezioni, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha elaborate, sono una bella provocazione per noi, perché ci chiedono di purificare la nostra fede. Una fede per troppi secoli preoccupata di affermare e di trovare le prove dell’esistenza di un Essere supremo. Anzi si considerava come momento essenziale della pedagogia della fede il poter raggiungere la certezza dell’esistenza di Dio per vie razionali.

A partire da questa certezza si affrontava poi una questione tipicamente cristiana, quella della Rivelazione. La Rivelazione altro non è che la Rivelazione di questo Dio che la ragione riesce a dimostrare e che è avvenuta per mezzo di Gesù Cristo, il quale ha affidato il messaggio alla Chiesa che lo perpetua lungo i secoli. Quindi, la conseguenza era che l’uomo che voleva salvarsi affidandosi a Dio, bastava si consegnasse docilmente all’insegnamento della Chiesa, che appariva come l’ultimo promontorio in un mare disastroso.

Oggi non è più accettabile per noi questa impostazione. Per un semplice motivo: il Dio pensato dai filosofi è sempre un Dio pensato dall’uomo, è sempre un Dio interno alle misure umane… porta in sé una legge antropocentrica. L’uomo non esce mai da se stesso, nemmeno quando contempla l’Essere: quell’Essere è una creazione che l’uomo compie a propria immagine e somiglianza. Se questa immagine assume poi i contorni di una nazione, di una cultura, di una presunta razza… il discorso non cambia e le conseguenze sono storicamente verificabili.

Ecco perché non basta la Legge. La parabola del Samaritano ci mostra un itinerario diverso, quello compiuto da Gesù. Il dottore della legge domanda per avere le sue sicurezze, le sue rassicurazioni e certezze fissando la Legge di Dio in un punto del cielo cui far adeguare la propria esistenza, far aderire la propria vita.

Gesù lo porta, e con lui porta ciascuno di noi, per un altro itinerario che va da Dio verso l’uomo. Non è possibile conoscere l’uomo senza la conoscenza di Dio e non è possibile conoscere Dio senza la conoscenza dell’uomo. E questa presenza del mistero di Dio nell’uomo si manifesta in Cristo. Chi conosce Gesù sa qualcosa di Dio e appare del tutto evidente dal linguaggio e dalla narrazione biblica che questa conoscenza non è un contemplare con l’intelletto una verità, ma è fare. Anzi precisamente è amare.

Il samaritano è Cristo che rivela in ultima istanza come la via per conoscere l’uomo e quindi per conoscere Dio sia l’amore per l’uomo. Questa è una conoscenza che è la stessa cosa dell’amore. Conosce l’uomo chi lo ama.

Ma l’ironia di Gesù è sorprendente: il prossimo del ferito è un samaritano, uno scomunicato, uno diverso da me. È lui che ama e non un suo simile, uno della sua classe sociale… Qui troviamo la norma concreta di quell’universalismo che potremmo definire criterio di autenticità di ogni forma di cristianesimo. Quel che conta nel modo di Gesù di vedere le cose non è che uno si dica cristiano o non cristiano, ma che uno si prenda cura dell’uomo ferito, chiunque esso sia.

Insisto nel dire che quello che ci chiede la parola di Dio non è semplicemente un atto di carità, oggi qualcuno direbbe di buonismo, ma di saper vedere anzitutto come l’amore di Dio si è manifestato in Gesù, vero samaritano del mondo, che ama l’uomo, così che nel mio amore per colui che chiede un bicchiere d’acqua, un pezzo di pane, o – per pensare alla nostra condizione oggi – per chi mi chiede lavoro, giustizia sociale, accoglienza fraterna… ecco in quest’uomo io trovo il luogo della vera conoscenza di Gesù e in questa conoscenza di Gesù, c’è la vera conoscenza del Padre.

Il problema vero, dice Gesù al dottore della Legge, è sapere se per l’uomo che ha bisogno di me, io mi rendo prossimo. L’uomo con cui devo misurarmi è l’uomo ferito, l’uomo che sta ai margini tra vita e morte.

Non c’è tradizione più importante da custodire di questa. Le altre sono tradizioni strumentali per evadere dalla responsabilità evangelica.

Certo anch’io mi sento più prossimo a quelli della mia generazione, con chi ha la mia cultura, i miei interessi, con chi ha letto i miei libri: con costoro io ci sto bene. Ma l’incontro con Cristo inevitabilmente continua a mettermi in discussione perché mi chiede di alzare lo sguardo su colui che è ferito, colui che è in uno stato di necessità e con il quale devo decidere se farmi prossimo o no.

Qui è il giudizio per intraprendere un cammino che non cerca Dio come risultato dell’itinerario della mente, ma nell’uomo della vita quotidiana.

E sapete allora cosa succede? Che anche la mente si aprirà, si dilaterà e diventerà capace di vedere che coloro che pur non credono nel Dio di Gesù Cristo e operano però per la liberazione degli uomini, sono interni al regno di Dio, sono operatori di quel regno di Dio che noi diciamo di conoscere in maniera esplicita, a causa della fede che ci è stata donata.

Per questo mi piace concludere con una parabola di vita attuale che traggo dall’esperienza di Pietro Bartolo e che viene raccontata in un libro che uscirà a breve Le stelle di Lampedusa.

Racconta il medico di Lampedusa che quando vide Anila per la prima volta rimase di sasso. Quella bambina non avrà avuto più di dieci anni. Che cosa ci faceva una creatura così piccola, da sola, in una nave piena di naufraghi disperati? Di solito, ragionò, i bambini di quell’età arrivano qui in Italia accompagnati dai genitori, o da un amico di famiglia o da qualche altro adulto conosciuto lungo il viaggio.

Allo stupore di quel primo istante seguì una certezza: l’arrivo a Lampedusa per Anila non era la fine di un lungo viaggio ma solo una tappa intermedia, un nuovo punto di partenza verso il suo vero obiettivo, trovare la mamma «da qualche parte in Europa» e salvarla. Da tutto. Dalla prostituzione, dal vudù africano che la teneva in scacco, dalla non meno malefica burocrazia occidentale, ma soprattutto dai suoi stessi sensi di colpa.

Pietro Bartolo accetta di accompagnare Anila lungo questo suo nuovo percorso. E, attraverso i suoi occhi neri e profondissimi, si proietta dentro l’interminabile incubo dei tanti migranti bambini che negli anni sono arrivati – da soli – sulle coste italiane: la miseria di Agades, la traversata del deserto, gli orrori delle carceri libiche, il terrore del naufragio nelle acque gelide di un Mediterraneo invernale e ostile.

È la storia di un samaritano del nostro tempo che vive in prima persona che cosa c’è davvero dall’altra parte dell’«allarme immigrazione», quello che troviamo rilanciato negli slogan più beceri di questo medioevo permanente in cui la politica ci ha catapultati e per non voltarci dall’altra parte come nella parabola, credendo forse di poterci lavare la coscienza soltanto perché abbiamo diminuito gli sbarchi.

Non so se il medico di Lampedusa creda in Dio o meno, e sinceramente non cambia il mio pensiero su di lui. So di sicuro che per lui possiamo ripetere le parole del salmo: Beato chi cammina nella legge del Signore.

Preghiamo perché si possa dire così anche di ciascuno di noi.

(Dt 6, 1-9; Rm 13, 8-14; Lc 10, 25-37)