I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Mt 28, 16-20


Se ripensiamo al contesto del passo di Vangelo di oggi, verrebbe da chiederci come possa Gesù aver fiducia di un gruppo di persone che di sicuro sono state con lui qualche anno e hanno condiviso giornate e esperienze straordinarie, insieme a ostacoli e difficoltà, comunque gli sono state intime e vicine, ecco viene da chiedersi come possa fidarsi di gente per la quale ha dato tutto, anche la sua stessa vita, quando per tutta risposta il suo braccio destro l’ha rinnegato, il suo amministratore l’ha venduto… davanti alla croce si sono dissolti come vapore. Non solo, quello stesso gruppo che l’aveva incontrato Risorto, poi era rimasto sconcertato dal fatto che il tanto atteso ritorno non avvenisse!

Matteo con realismo, ma anche con una certa delicatezza, usa al v. 17 un verbo: dubitarono. Questa è la prima contraddizione: come può il Maestro dare fiducia ancora a costoro? Umanamente erano inaffidabili! Fino all’ultimo stavano a discutere chi tra di loro fosse il più importante… cercavano posti in alto nel futuro regno di Gesù…

E poi c’è una seconda contraddizione, quando Gesù insiste sul fatto che a lui è stato dato tutto il potere, in cielo e in terra, e quindi ci aspetteremmo che la declinazione del potere fosse tale da cambiare lo stato delle cose. Potere, lo dice il verbo stesso, significa la possibilità di incidere sulla realtà, sulla società, sul modo di pensare attraverso gli strumenti adeguati, efficaci.

E invece quello che Gesù consegna ai suoi non ha per nulla l’apparenza del potere, anzi, quando afferma: mentre andate, fate discepoli tutti i popolibattezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando a osservare tutto ciò che vi ho comandato, dice di fare cose deboli!

Ora noi sappiamo che Gesù ha dato appuntamento ai discepoli in Galilea e precisamente sul monte, forse lo stesso monte della trasfigurazione dove aveva anticipato la rivelazione della sua missione, forse il monte delle Beatitudini, quello del discorso della montagna che richiamava a sua volta il monte sul quale Mosè ricevette la Torah…

Non sappiamo, può anche essere che la menzione generica richiami tutti questi diversi elementi come invito a tenere vivo l’annuncio delle beatitudini evangeliche: insegnate a perdonare, ad essere operatori di pace, a vivere nella fiducia, a non guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello, a pregare senza farsi vedere, a digiunare senza ostentazione, a non mettere la propria fiducia nei beni della terra….

Il ritorno in Galilea è molto più di una indicazione geografica: ci ripropone un dinamismo che è la condizione del discepolo che è quella di tornare in Galilea, ovvero al tempo in cui si sta con Gesù, alla scuola del Maestro e con lui sul monte, per poi andare a fare discepoli tutti i popoli, per poi abbracciare tutta l’umanità.

Qui sta il «potere» che Gesù affida ai suoi: si tratta di immergere gli altri in un’esperienza nella quale essi stessi sono stati introdotti, grazie a Gesù, ovvero immergere nella vita del Padre, del Figlio e dello Spirito coloro che si sentono lontani da Dio e che ne hanno un’idea distorta al punto da prenderne le distanze. Significa: immergere l’umanità nell’amore di Dio che solo può salvare, aiutare le persone a lasciarsi invadere dalla grazia del disegno dell’amore di Dio che si esprime nel Figlio e viene portato a compimento dallo Spirito.

Ecco il potere che Gesù affida ai suoi discepoli, alla sua Chiesa, una missione che porta speranza e amore, perché la Chiesa è una comunità di persone che hanno vissuto e vivono le contraddizioni delle proprie vigliaccate, ma senza rimanerne schiave.

Le contraddizioni da cui siamo partiti non si sono risolte con la coerenza dei discepoli: nulla poteva cancellare il senso di colpa, di fallimento, il disastro di Pietro che nel giro di poco si proclama fedele fino alla morte e che poi alla prima occasione fa finta di non conoscere nemmeno Gesù!

Ebbene come si risolvono queste contraddizioni? In quel battesimo che è l’immersione nella misericordia del Padre. È l’esperienza di Paolo, che è anche la nostra, quando riconosce che è a motivo della grazia data da Dio che sono ministro di Cristo Gesù tra le genti.

È la grazia, è l’amore misericordioso di Dio che ha reso gli Undici, le donne, Paolo e ciascuno di noi… capaci di uscire dal loro e nostro fallimento per essere testimoni non di un’idea. Non devono annunciare altro che proprio per il fatto di essere stati a loro volta immersi, immersi fino al collo nell’amore di Dio, proprio per questo la grazia di Dio può raggiungere tutti!

Allora possiamo sperare anche noi che la Chiesa che è in Italia esca da una lunga e lenta convalescenza. Se dovessimo tracciare una sorta di bollettino medico sullo stato di salute della Chiesa italiana, cosa scriverebbe un bravo medico? Quello che è necessario dopo una protratta immobilità, quando le membra ancora anchilosate avvertono formicolio, un po’ di senso di fastidio, se non di dolore… è chiaro che dopo una paralisi ci vuole un po’ di riabilitazione!

«Dalla fine del XX secolo, quando il neoliberismo individualista e nichilista si è fatto più aggressivo, la Chiesa si è paralizzata, ha rialzato i bastioni (che aveva abbattuto con il Concilio), ha ricentralizzato e verticalizzato la guida (che aveva cerca prima di dinamizzare nel decentramento e nella collegialità), ha smesso di trafficare i talenti (che non sono, banalmente, delle doti umane, ma sono i valori evangelici) parlando di valori non negoziabili, cioè appunto non “trafficabili”: il sale è rimasto nella saliera e non ha più dato sapore alle vivande; il fermento è rimasto nella dispensa e non ha più fermentato la pasta» (Fulvio De Giorgi).

Ecco che papa Francesco, da bravo medico, sta tirando fuori la Chiesa dalla paralisi e, con molta pazienza, la sprona ad essere una chiesa in uscita! Una Chiesa che ha la passione di Dio stesso perché tutti abbiano a fare l’esperienza della sua misericordia.

Se Pietro fosse stato lì a rimuginare in continuazione la sua fragilità, se si fosse lasciato schiacciare dal senso di colpa per aver rinnegato il suo amico… se Paolo a sua volta si fosse lasciato opprimere dal peso di un passato che lo ha visto addirittura perseguitare i cristiani, il vangelo non sarebbe arrivato nemmeno a noi!

È troppo grande questa passione di Dio perché non vinca la nostra paura di non essere all’altezza, anzi proprio perché avvertiamo lo scarto che sussiste tra la nostra vita e il mistero dell’amore di Dio, che possiamo annunciarlo.

Non saranno i nostri limiti, nemmeno le nostre incoerenze a fermare il dilagare dell’amore di Dio. Anzi, quando noi diventiamo pigri, viziati, comodi e non ci schiodiamo dalle nostre paturnie, l’Eterno ci manda dei discepoli, ci manda apostoli come abbiamo ascoltato domenica scorsa dall’esperienza di Queen: la sua testimonianza di fede, di umanità, di madre e di donna è parola di Dio per noi, al fine di darci una scossa, per farci percepire a quale grandezza siamo coinvolti da Dio.

Andando, immergete le genti nell’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito. Invochiamo lo Spirito perché, come raccontano gli Atti degli apostoli, ci sospinga fuori dalle nostre paure, dai nostri recinti, dai muri che abbiamo in testa, ci faccia salpare dai nostri porti mentali e culturali per accogliere la bellezza di un amore che le nostre contraddizioni non possono spegnere.

Come dice papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (20).

(At 13, 1-5; Rm 15, 15-20; Mt 28, 16-20)