VII DI PASQUA o Domenica dopo l’Ascensione - Lc 24, 13-35
Anche a noi ardeva il cuore in queste settimane in cui abbiamo vissuto in un ascolto più intenso della Parola. Per me e credo anche per ciascuno di voi, in questi tre mesi di vita da segregati nelle nostre case, in famiglia o da soli il Vangelo di Gesù ci ha accompagnato, ci ha tenuti uniti e legati e ha alimentato comunque la nostra comunione.
Non è stata l’eucaristia domenicale, ma l’ascolto della Parola, a tenere viva la nostra fede: un ascolto più disteso e pensato, capace di illuminare questa stagione della nostra vita che non avevamo previsto, per cercare di comprendere con le parole della Scrittura i cambiamenti che abbiamo dovuto accettare e quelli che abbiamo dovuto scegliere, per tenere accesa la speranza, la gioia del Vangelo, la beatitudine della mitezza e della sobrietà.
Ebbene è giunto il momento di spezzare non solo il pane della Parola, ma anche di celebrare la Cena del Signore.
Certo la viviamo condizionati da alcune norme come il distanziamento fisico, la limitazione numerica, la mascherina… ma possiamo andare oltre queste ristrettezze lasciandoci avvolgere dalla gioia di stare comunque a tavola con Gesù, di nutrirci del suo amore e di portare qui anche coloro che non possono esserci per tanti motivi, coloro che vorrebbero, nella certezza che il suo amore non ha mai smesso di esserci per noi. Abbiamo proprio bisogno di sederci a tavola insieme per compiere i suoi gesti, rivivere il suo mandato perché siamo fisici, siamo concreti.
È così che riviviamo la scena di Emmaus oggi: dopo tre mesi di lungo cammino nell’ascolto e nella preghiera, ora finalmente ci sediamo a tavola e possiamo spezzare il pane.
Abbiamo tutto il diritto di essere contenti di questo, di poter gioire di questa eucaristia. Ma come a Emmaus, la nostra gioia non si fa possesso e proprio come allora, come quella sera di pasqua nemmeno i due discepoli poterono trattenere Gesù perché nel momento in cui lo riconoscono, il Signore si sottrae.
Un po’ come era accaduto all’alba a Maria di Magdala, quando alla donna che voleva stringerlo a sé, Gesù disse: Non mi trattenere, ma va’ dai miei fratelli.
Così è per noi oggi: la gioia che assaporiamo nello spezzare il pane e nel nutrirci dell’Eucaristia non ci fa stare tranquilli nella nostra comunione con Cristo, ma come i due discepoli dobbiamo riprendere il cammino senza indugio.
C’è una sollecitudine, c’è una certa fretta che sospinge ad alzarci e ad andare che ritroviamo anche nello svolgimento della celebrazione. Avete notato come è articolata nella sua parte iniziale, le letture, l’offertorio, il memoriale e poi, quando si arriva alla comunione, i riti di conclusione ci proiettano rapidi fuori dal tempio come a riconsegnarci alla strada, a restituirci alla responsabilità che ci attende fuori di qui nell’avere lo stesso spirito di Gesù, il quale nell’ultima cena dopo aver spezzato e condiviso il pane ha messo la sua vita a servizio degli altri.
A noi che abbiamo desiderato intensamente poter tornare a sederci a tavola col Signore, ora l’incontro col il Risorto ci sospinge ad uscire da qui senza indugio, dice il vangelo, a non trattenere per noi la gioia e la bellezza di questo incontro, ma a condividere la sua sollecitudine.
Papa Francesco qualche giorno fa a proposito della missione dei discepoli ha usato questa immagine molto eloquente: Guardate fuori, non guardatevi allo specchio. Rompete tutti gli specchi di casa (21 maggio 2020).
Anche ai due di Emmaus faceva piacere stare a tavola con Gesù, prolungare quelle ore trascorse insieme ad ascoltarlo. Ma dovevano andare, non potevano trattenere il Vangelo chiuso nei loro cuori. Per usare l’immagine di papa Francesco, non vogliamo essere una chiesa che si guarda allo specchio, ma una chiesa di discepoli che impara a dire come Paolo nella seconda lettura: Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi siamo vostri servitori a causa di Gesù (v.5).
Cosa significa mettersi al servizio del Vangelo e cosa vuol dire essere servitori degli altri?
1.Servire il Vangelo è una vita per e con Gesù. Averlo come ciò che di più caro uno possa tenere. Al di sopra di ogni interesse, di ogni progetto, di ogni stato d’animo.
Avere il Vangelo che scorre come il sangue nelle vene, come il respiro nei polmoni.
Servire il Vangelo non è mai semplicemente un sentimento intimo, per quanto nobile e necessario, perché esige – se è fedele a Cristo – il passaggio della croce come pienezza dell’amore, che è il vero luogo di discernimento, criterio di autenticità.
Servire il Vangelo è amare di amore vero la chiesa, perché anche la chiesa rischia di specchiarsi e di “ri-flettersi”, di pensare a sé stessa come opera e costruzione frutto delle proprie strategie pastorali, di confidare più nei propri successi che sulle capacità dello Spirito di trasformare la debolezza umana in grazia.
2.Servire il Vangelo ci rende poi responsabili dei fratelli e delle sorelle in umanità, di quanti cercano e avvertono la necessità di una dimensione altra, oltre a quella sociologica, psicologica, filosofica, tecnica, scientifica… di autentica spiritualità e umanità.
Per cui essere servitori degli altri non significa essere passivamente subalterni, essere come quegli adulatori che fanno sentire che sei sempre bravo e brillante… essere servitori degli altri a causa di Gesù esige che senza indugio fai come lui, hai lui come riferimento, come punto fermo e ti doni.
Essere servitori degli altri a causa di Gesù, può comportare anche che gli altri si scaglino contro di te, ma come si scagliassero contro Cristo. Non ce l’hanno con te per te stesso, per i tuoi errori o i tuoi limiti, ma per il fatto stesso che il Vangelo li provoca, li irrita e li rende come la folla davanti a Pilato, davanti al potente di turno, capaci di urlare la loro scelta diversa, vale a dire Barabba.
Dunque partecipare alla Cena del Signore ci rende servi del Vangelo e servi degli altri a causa di Gesù, perché le due cose vanno sempre insieme, come ci ricordano alcune figure e alcune persone come quelle di cui abbiamo fatto memoria nella settimana appena trascorsa.
Penso anzitutto ai sette monaci trappisti di Tibhirine (Algeria) che avevano deciso di restare nella terra in cui avevano scelto di testimoniare il Vangelo – nell’umiltà e nel servizio alla popolazione locale – anche quando tutto concorreva a lasciarla, quando la violenza dell’estremismo aveva preso di mira gli stranieri “crociati”.
Restare per amore del popolo di cui si sentivano parte, restare perché «non si abbandona un amico quando soffre», e per questo massacrati (21 maggio 1996). Penso al giornalista Paolo Giuntella (22 maggio 2008), a don Andrea Gallo (22 maggio 2013) e a quella sua espressione che ben rappresenta quanto andiamo dicendo: La posa dell’uomo crocifisso è la stessa dell’uomo che accoglie.
E poi a Giovanni Falcone, a Francesca, Vito, Rocco e Antonio, che hanno pagato con la vita il loro servizio alla giustizia contro la mafia ventotto anni fa (23 maggio 1992).
Queste persone ci stanno a ricordare che essere a servizio del Vangelo, significa mettersi al servizio della legalità, della giustizia, dell’umanità qui e oggi, in questo nostro tempo, sapendo che questo chiede il coraggio di combattere la corruzione che è diventata ormai, come confermano gli analisti più attenti, la cerniera tra noi e le mafie, la zona grigia che le rende simili a noi e al tempo stesso ci «mafiosizza», ci rende simili a loro.
«Facendo del rintracciamento del denaro – «follow the money» – uno dei cardini del proprio metodo investigativo, Giovanni aveva prefigurato con sguardo profetico lo sviluppo economico e imprenditoriale del crimine mafioso.
Ci aveva messo in guardia dal rischio che, in un mondo piegato all’idolo e alla logica del profitto, le mafie avrebbero trovato sempre più spazio, nascoste nelle pieghe di un tessuto sociale smagliato, avvantaggiate da una politica incurante del bene comune.
Previsione che oggi ha trovato agghiacciante conferma: le mafie non solo sono dovunque, in molte parti d’Europa e del mondo, ma possono agire nell’ombra, quasi indisturbate, usando quei soldi che possiedono in quantità smisurata laddove prima usavano le armi»[1].
Signore donaci di annunciare il tuo Vangelo e null’altro che il tuo Vangelo per il servizio all’umanità.
Ti chiediamo quel po’ di coraggio che serve e per non accontentarci di specchiarci nei nostri successi e per sostenere i rischi di questo servizio.
(2 Cor 4,1-6; Lc 24,13-35)
[1] Luigi Ciotti, Il Manifesto 24 maggio 2020