IV DI PASQUA - Gv 10, 27-30
Sono giorni intensi di memoria storica: abbiamo ricordato i cento anni del genocidio del popolo armeno; i settant’anni della liberazione del nostro Paese dal nazifascismo; ma vorrei anche ricordare la morte avvenuta il 25 aprile 1992 di un profeta del nostro tempo p. Ernesto Balducci, morto appunto pochi mesi dopo l’altro grande profeta e amico p. Turoldo.
Il fare memoria ci aiuta a guardare da questa prospettiva la nostra storia sempre intrecciata di problemi e tensioni, quali l’immigrazione, il terrorismo, le persecuzioni… sfide che incontriamo quotidianamente e che possiamo leggere e comprendere con gli occhi profondi dei profeti.
Le ricorrenze e gli anniversari risulterebbero pura retorica se non ci aiutassero e soprattutto se non aiutassero le giovani generazioni a fare memoria, a riflettere e a pensare sulla vicenda di chi li ha preceduti per guardare con occhi consapevoli la realtà e a sollevare lo sguardo dallo schermo del loro iPad, del loro telefonino, del loro video gioco per tornare a pensare.
Di fronte all’abisso del male assoluto e della violenza, 70 anni fa ci sono stati uomini e donne capaci di non tirarsi indietro, di non abbassare la testa, di non piegare la schiena, di non rifugiarsi in una comoda indifferenza. La nostra città, come tante altre città, custodisce storie di coraggio che hanno portato migliaia di giovani a sfidare la prigionia e la morte per mano nazifascista in nome di ideali quali la libertà, la dignità delle persone e la democrazia.
Storie di «coraggio», ovvero di chi «ha avuto cuore»! Il coraggio che non è la mancanza della paura, quella sarebbe spavalderia, ma è la consapevolezza che c’è qualcosa di più importante della paura, qualcosa per cui gettare il cuore al di là, oltre l’ostacolo, oltre la paura e le paure. L’immagine del Buon Pastore ci riconsegna oggi il filo del discorso giusto. Perché il buon pastore sta a dirci che c’è una storia che è vissuta nell’amore e dall’amore e che non semina tribolazioni, ma le porta nel cuore. Il pastore è pronto a donare la sua vita, e se non è amore questo! Certo non conosce la propaganda, la pubblicità, è una storia minima, ma che investe tanta gente che nemmeno ci immaginiamo e di cui non ci accorgiamo. Del resto i nostri mezzi di informazione non narrano – perché non fa notizia – che due persone si amano: narrano che una ammazza l’altra. Cioè l’amore è senza storia, se per storia intendiamo la notorietà, la risonanza sui media.
Non voglio fare l’esaltazione del piccolo e dell’anonimo – che potrebbe essere un vizio decadente – voglio cercare di fissare lo sguardo cristianamente sulla realtà di una storia che è scritta, vissuta e narrata dall’amore e da nient’altro.
È una storia dove hanno molto spazio le tribolazioni, questo è certo. Perché non appena noi intuiamo di poter vivere secondo questa legge dell’amore come ci è espressa da Gesù, che consiste nel vivere per l’altro fino al dono totale di sé, ecco che entriamo in conflitto strutturale con la realtà, non riusciamo a sparigliare i meccanismi potenti e ben tutelati della cultura dominante.
«L’amore è sempre stolto, scriveva Balducci, non riesce mai a trovare le parole che gli diano prestigio nella piazza pubblica della cultura ufficiale». Tranne quando ci sono le grandi creazioni letterarie e gli alti accenti poetici, ecco che allora rientrano nel patrimonio utilizzato della cultura diffusa capace di leggere commossa pagine d’amore, ma subito dopo altrettanto capace di scrivere pagine feroci di crudeltà.
Così abbiamo fatto sempre, anche nelle nostre scuole: liriche d’amore e narrazioni di guerre. Dove la volontà punta sulla seconda parte: la prima è una parentesi insignificante di consolazione.
Come vivere da cristiani e quindi da umani queste contraddizioni? Il nostro riferimento è il Cristo, ma un Cristo che anche noi dobbiamo sempre conoscere, mai posseduto una volta per tutte, ed è per questo che siamo qui. Un Cristo che oggi nel vangelo (Gv 10,27-30) si presenta a noi come il Buon pastore, anche se in realtà questa espressione non ricorre mai nelle poche righe, infatti dovremmo riprendere tutto il cap. 10 nel quale ad un certo punto i capi del popolo chiedono a Gesù, che ha appena guarito un cieco nato: Se tu sei il Cristo dillo a noi apertamente! (10,24).
È la domanda che i capi, secondo i sinottici, fanno a Gesù davanti al Sinedrio, e che invece per Giovanni viene posta dopo la guarigione del cieco nato: ma chi sei? Sei il messia? Sei il Cristo? Perché appare come un messia strano che dà il vino buono; che fa camminare il paralitico; che dà la vista ai ciechi; che perdona… Esattamente il contrario dell’idea che abbiamo noi di Dio e del suo messia. Si pensa sempre che arrivi un messia che ci liberi dai nemici, che faccia la guerra santa, che sia più potente di tutti e vinca insieme con i buoni la crociata contro i cattivi… questo sarebbe il nostro modo di pensare il messia.
Per Gesù, questo sarebbe ancora il regno dei briganti, il regno dei mercenari, un regno in cui vince sempre il peggiore, dove il violento domina sull’altro… mentre lui è il Dio che lava i piedi ai discepoli. È re perché il suo trono è la croce, non è un re che toglie la vita e domina con terrore sugli altri perché ha potere su di loro, ma perché dona la vita, mette la sua vita a servizio.
E questa è la «bestemmia» di Gesù. Se solo provassimo a pensare come potevano risuonare nel cuore dei suoi ascoltatori queste sue parole: Io e il Padre siamo una cosa sola… non potremmo che giungere alla conclusione: Gesù sta bestemmiando! Dio non può essere così.
La fede cristiana nasce su una bestemmia, anzi questa bestemmia è la sostanza della vita cristiana, dove si dice non solo che Gesù è Dio, e questo può anche andare perché poi uno applica a Gesù le sue idee su Dio, ma anche che quel Dio che nessuno ha mai visto è l’uomo Gesù, quell’uomo che lava i piedi, che si fa servo dei discepoli, che dà la vita per chi lo mette in croce, quello è Dio e non ce ne altri! Allora no, uno così deve morire.
Forse abbiamo dimenticato che questa è la più grande blasfemia, perché credere che quest’uomo così è Dio, appare insostenibile. Il nostro peccato è voler far diventare Dio come noi, come lo pensiamo noi ovvero giudice e giustiziere….
Per questo Gesù ci ammonisce oggi: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Dobbiamo sempre tornare ad ascoltare Gesù e seguirlo. Questi sono i due verbi che dicono la nostra responsabilità: ascoltare e seguire. Ma in mezzo c’è un altro verbo che riguarda Gesù e che tiene in piedi gli altri due: le pecore ascoltano e seguono, ma io le conosco!
Non pensiamo alla conoscenza intesa alla nostra maniera, come quando affermiamo: io so bene chi è quello lì! «Conoscere uno» per noi significa guardarlo soprattutto per quelli che sono i suoi errori, i suoi sbagli i suoi limiti. Conoscere per noi è sapere, è essere informati ed è pregiudiziale alla relazione.
Nella tradizione biblica il verbo «conoscere» è ben più di un’informazione, è legato alla dimensione dell’amore. È lo stesso verbo che serve ad esprimere il rapporto di amore anche tra l’uomo e la donna, quindi il conoscere di Gesù non è un atto semplicemente intellettuale, è una comunione che si crea, di amore e di fede. Le due cose non sono separabili per Giovanni, perché per lui amare è credere!
Noi non siamo stati in grado di tenere insieme fede e amore e abbiamo fatto anche delle professioni di fede, come il Simbolo apostolico o quello niceno, nei quali la parola «amore» non compare. E non abbiamo scritto nella storia del cristianesimo una confessione di amore, anzi continuiamo a parlare di credenti e non credenti, mai di amanti e non amanti!
Infatti possiamo dire che storicamente la chiesa giovannea è diventata, anzi lo è stata fin dall’inizio minoritaria, marginale. Non è questo il modello di Chiesa che diventerà prevalente.
Ha prevalso, anche per motivi storici, la chiesa strutturata, organizzata, una chiesa in cui appunto la cura pastorale si è fortemente gerarchizzata come nel libro degli Atti, dove appunto la «cura pastorale» è diventata nel tempo l’organizzazione, l’impostazione della parrocchia, gli uffici della diocesi, le molteplici attività delle missioni nel mondo… tutte cose importanti e necessarie, ma che hanno finito per essere prevalenti sul messaggio.
Chiediamo allora anche noi al Signore di avere un po’ di coraggio per non omologarci al regno dei mercenari, dei briganti e dei ladri, il coraggio di resistere al male, all’odio, alla violenza, alla discriminazione; ma anche il coraggio di resistere al dilagare dell’indifferenza e della superficialità.
Chiediamo però anche un’altra cosa, ovvero il coraggio di arrenderci all’amore, di arrenderci al bene comune, di arrenderci alle mani del pastore che ci tiene ben stretti nel suo amore.
Resistenza e… resa, dunque.
Resistere al male e arrenderci al bene, arrenderci cioè alla necessità di vivere, di scrivere e di narrare la storia con l’amore.