IX DOPO PENTECOSTE - Mt 22, 41-46


(1Sam 16, 1-13; 2Tm 2, 8-13; Mt 22, 41-46)

È un passo un poco oscuro quello del vangelo di oggi. Dopo le incalzanti domande dei farisei e degli erodiani che abbiamo ascoltato domenica scorsa, oggi è Gesù che a sua volta incalza gli avversari con alcune domande che tra l’altro li trova incapaci di rispondere. La questione è un po’ particolare, però ci dà l’occasione di riprendere un tema caro al Primo testamento ed è quello della discendenza di Davide, tema che ritorna spesso in numerosi testi del NT. Ricordiamo quando l’angelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù:

«Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo;

il Signore gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre» (Lc 1, 32-33).

Nel cantico del Benedictus, Zaccaria dice:

«Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,

e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo…» (Lc 1,68-69).

All’ingresso in Gerusalemme, la gente acclama Gesù dicendo:

Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

… del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli! (Mc 11, 9-10).

Questi sono solo tre dei quasi sessanta passi del NT in cui si cita il nome del re Davide e spesso in riferimento a Gesù! Perché questa ricorrenza così importante? Per rispondere dobbiamo allora domandarci anzitutto chi è Davide nella Scrittura, e poi in che rapporto sta Davide con Gesù, e infine, in terza battuta, Davide, Gesù e noi.

Anzitutto chi è Davide, perché conoscere Davide significa per noi conoscere di più Gesù. Non possiamo ovviamente qui che tentare una sintesi dell’intesa vita di questo grande re d’Israele. La prima lettura di oggi ce lo fa conoscere come il più piccolo degli otto figli di Iesse, un pastorello che il padre non riteneva nemmeno di dover far incontrare con il profeta Samuele che deve ungere il successore di Saul.

Certo il padre Iesse fa sfilare tutti e sette i suoi figli dal più prestante al più forte… ma il profeta era stato avvertito: Non guardare l’aspetto né l’alta statura… non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore. E infatti viene scelto il più piccolo, un pastorello inesperto, anche se, fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.

Forse di lui ricordiamo la grande avventura con Golia, il campione dei Filistei, quando un giorno sul campo di battaglia arriva casualmente il piccolo pastore, il quale viene a portare formaggio, grano e pane ai fratelli e Davide, tra lo sconcerto e la sfiducia dei fratelli, raccoglie la sfida Golia. Saul vorrebbe fargli indossare almeno un’armatura, ma per il piccolo pastore era più d’impaccio che altro… Davide conta sul fatto che Dio l’ha sempre protetto: l’azione è velocissima e il combattimento è descritto in poche righe, con una fionda abbatte il campione filisteo.

Non è solo una storiella, in realtà racconta di un’esperienza importante anche per noi: quante volte ci è capitato di trovarci bloccati dalla paura per quei fantasmi e giganti cui abbiamo riconosciuto il potere di condizionare la nostra vita. Davide ci insegna che l’Avversario non è forte solo per una sua forza reale, ma anche per la paura che può mettere nel nostro cuore. Se uno si lascia vincere dalla paura e si perde d’animo, non c’è bestia più feroce e gigantesca sulla terra di questa che possa soggiogarci. La grandezza di Davide sta anche in questo.

Di Davide conosciamo anche le sue abilità musicali. Si dice che Saul fosse spesso triste, anzi diremmo noi, depresso, e che a corte non sapevano più come fare, fino a quando un giorno fecero chiamare Davide che tra l’altro sapeva suonare bene la cetra antica (psalterion in greco) e proprio per questo fu capace di risollevare il morale di Saul con le sue musiche e i suoi canti. Per questo la tradizione ebraica attribuisce gran parte dei 150 salmi a Davide (cosa assai improbabile storicamente).

Senza raccontare tutto della vita di Davide che pure sarebbe interessante, possiamo ricordare come dopo infinite battaglie e conquiste, finalmente stabilì la sua capitale a Gerusalemme dove regnò trentatré anni (sette stando in Ebron: 2 Sam 5,5). La posizione geografica di questa città a metà strada tra le tribù del nord e quelle del sud, spiega la scelta di Davide. Antica città dei Gebusei, costruita sul colle Sion, era un città esistente già dal 2000 a.C.

In una parola potremmo dire che Davide intorno all’anno mille a.C. ha portato a compimento la missione iniziata da Abramo e poi da Mosè, nell’organizzare le dodici tribù in un popolo strutturato e compatto, in un regno con dei confini, una capitale…

Questo bel sogno però – e qui dobbiamo fare un salto di quattro secoli – viene distrutto. Nel 587 Nabucodonosor conquista Gerusalemme, abbatte il tempio di Salomone. Gran parte della popolazione e dell’élite viene deportata a Babilonia, Gerusalemme è di lì a pochi anni rasa al suolo. Il regno di Davide non esiste più, né tantomeno la sua discendenza reale. Da qui l’attesa di un Messia, in greco di un Cristo, ovvero di una persona scelta e unta dal Signore – così come era stato unto Davide – che venisse a ristabilire e a ricostruire un popolo libero, nella sua terra, con la sua capitale come appunto aveva fatto Davide.

Al tempo di Gesù, ecco la seconda questione, l’attesa di un Messia, di uno che avrebbe restaurato la discendenza davidica era ancora forte proprio a causa della dominazione romana. Ma quale Messia? Un altro re, capo militare? Un grande sacerdote? Un profeta carismatico?

Vedete come l’umanità nei momenti di crisi e difficili pone sempre le proprie attese e aspettative nella ricerca di un uomo forte che risolva i problemi! È una tentazione e una via d’uscita che ci appare come la più praticabile.

È con questa ambiguità dell’attesa che Gesù si confronta oggi nel passo evangelico. Infatti dice ai farisei: Di chi è figlio il Messia, il Cristo? E questi rispondono: ovviamente di Davide! Ma a questo punto Gesù cita il salmo 110: Come mai allora Davide (appunto i salmi erano ricondotti a lui) afferma: Disse il Signore (Dio) al mio signore (minuscolo) questo signore è il re… Gesù domanda: se è Davide che parla così, come può essere che si rivolga al suo discendente chiamandolo: Mio signore?

Gesù pone una questione, diremmo il caso serio che ancora oggi divide ebrei e cristiani: per un verso è vero che Gesù continua la promessa di Davide, ma al tempo stesso Gesù non è biologicamente figlio di Giuseppe, la cui famiglia sia pure lontanamente apparteneva alla casata di Davide, ma è figlio di Dio e di Maria. Per questo i farisei non sanno rispondere alle domande di Gesù!

Ciò che Gesù vuol mostrare ai farisei è che non ci sarà la restaurazione della monarchia davidica attesa dai nazionalisti per liberare con la forza il popolo dal dominio romano… Il cartello sulla croce sancirà in modo scandaloso questa verità: questo è il modo di essere re per Gesù, un re che per amore dona la sua vita sulla croce!

Gesù a ben guardare quando parla di se stesso si definisce piuttosto come il figlio dell’uomo, perché dopo Gesù, non c’è più bisogno di un altro salvatore, ma di un’umanità, di un popolo nuovo definito non da un’etnia, da una ascendenza, da una terra o dai confini geografici… ma un popolo piccolo, insignificante come era insignificante Davide agli occhi dei generali, eppure capace di vivere la stessa regalità di quel Cristo che è stato Gesù. Un popolo che sarà messia alla maniera di Gesù.

E quindi, ecco il senso che ha per noi l’essere discendenza di Davide, noi continuiamo ad essere quel popolo esiguo e insignificante agli occhi del mondo, che segue un re capace di donare la propria vita per amore; che è sacerdote non alla maniera di una casta sacerdotale, ma memoria vivente della misericordia di Dio nella storia ed è profeta perché continua a dare speranza all’umanità, tenendo viva la parola di Dio, quella parola che non è incatenata come dice Paolo.