II DOPO L’EPIFANIA - Gv 2, 1-11
Credo che se Maria, la madre di Gesù, fosse qui con noi oggi ripeterebbe senza esitazione alcuna l’amara constatazione che ebbe a fare al banchetto di nozze a Cana di Galilea: Non hanno più vino.
È vero, non siamo felici, non siamo contenti. Ma non a causa degli alti e bassi della vita che periodicamente ci capitano, piuttosto è il perdurare, a causa della pandemia, di una situazione difficile per la vita lavorativa, per la vita sociale, per la vita personale.
Viviamo una condizione in cui avvertiamo di essere logorati, straniti, stanchi, anche perché non ci pare di vedere a breve, dopo un anno ormai che siamo in queste condizioni, una via d’uscita, una ripresa.
A ragione Maria direbbe ancora oggi, e noi con lei: Non hanno più vino. La cosa è ancora più grave perché non solo riguarda il nostro Paese, il nostro continente, l’Europa, ma è una condizione mondiale che coinvolge tutti. Certo la speranza dell’efficacia del vaccino ci induce intravvedere una luce in fondo al corridoio buio, ma occorre ancora del tempo, tanto tempo.
Maria a Cana dà voce a questa nostra condizione e la presenta al Cristo, come accade ogni volta che ci troviamo a pregare e a chiedere al Signore l’aiuto, il suo soccorso, il suo intervento.
Ora le parole di Gesù sono sorprendenti perché non offrono una risposta di quelle che ci aspetteremmo noi, non dice: prendi questa pastiglia, oppure ubriacati, fai questo, fai quello… Gesù dice di prendere le anfore piene di acqua fino all’orlo, per poi trasformare l’acqua in vino. Trasforma quello che c’è, trasforma la tristezza, la delusione, l’amarezza che sono giunte al colmo, fino all’orlo, in gioia, di cui è segno il vino.
Addirittura risulta essere un vino ancora più buono di quello che si era bevuto all’inizio!
Ora ci chiediamo che ha a che fare con la nostra mancanza di gioia e di felicità quello che è accaduto a Cana di Galilea tanti anni fa?
Anzitutto siamo di fronte al primo dei ‘segni’, come definisce Giovanni quelli che i Sinottici chiamano i ‘miracoli’ di Gesù. Non solo ma con questo ‘segno’ dice Giovanni, Gesù manifestò la sua ‘gloria’, anche se poco sopra nel rispondere a Maria dice che non è ancora giunta la sua ‘ora’.
Il primo segno, nell’inizio della vita di Gesù è già compreso tutto quello che diventerà palese nella pasqua di Gesù: l’ora sarà quella della sua morte e risurrezione, che sarà anche l’ora della gloria, perché nel segno della croce, Gesù ha reso palese e visibile di quale amore è capace, con quale misura di misericordia Dio ha inondato il mondo.
Il risultato di tutto questo è la gioia. Perché ci rendiamo conto di aver ricevuto in dono il Vangelo, la buona notizia per noi.
Quando incontri Gesù e lo accogli non più per sentito dire o per tradizione acquisita, ma perché è diventato l’interlocutore della tua vita, la gioia del Vangelo riempie il cuore, inonda la mente e ogni fibra del tuo essere.
Una gioia che nasce, come ci ricorda il segno di Cana, dalla trasformazione della delusione, dell’amarezza, della quantità di acqua contenuta nelle sei anfore, che dicono tutto l’umano di cui siamo fatti, in vino nuovo, in vita, in convivialità, in futuro.
Che è esattamente tutto quello che oggi ci manca e che ci fa ripetere: Non abbiamo più vino!
Ora ci domandiamo come possa ancora Gesù trasformare o aiutarci a trasformare la nostra tristezza. Penso alla preziosa consegna che nel 2013, all’inizio del suo servizio pastorale, papa Francesco ha dato alla chiesa con la sua esortazione Evangelii gaudium. La gioia del Vangelo.
Papa Francesco suggerisce quattro punti fermi, quattro parametri che possono essere, anche in questo perdurare della pandemia, importanti per noi per trasformare la grande amarezza e la fatica che viviamo oggi in occasione di gioia, in occasione di Vangelo.
Primo, scrive papa Francesco, occorre che impariamo a riconoscere che il tempo è superiore allo spazio. A noi che siamo ossessionati dai risultati immediati, siamo attraversati dalla tensione tra pienezza e limiti e vorremmo avere subito le risposte per cambiare le cose, Papa Francesco suggerisce di occuparci di iniziare processi più che di voler possedere spazi, di avere un atteggiamento lungimirante piuttosto che mirare a ottenere risultati immediati a tutti i costi.
Succede così ad alcuni politici che pur di avere uno spazio, pur di occupare la scena non guardano ai danni e ai problemi veri che la gente vive. Anziché avviare processi che richiedono tempo per introdurre cambiamenti veri, sono sollecitati dalla fretta e dall’urgenza di ottenere risultati immediati a proprio tornaconto a qualsiasi prezzo e a qualsiasi costo. Si tratta invece, suggerisce papa Francesco, di privilegiare la gratuità al calcolo di un tornaconto sempre e comunque.
Secondo. L’unità prevale sul conflitto. I conflitti appartengono alla nostra vita, ma sono le reazioni ad essere tra loro diverse: c’è chi se ne lava le mani, c’è chi li vive con acrimonia e rabbia… ma ci può essere un modo capace di trasformare i conflitti in occasione di un nuovo balzo in avanti nelle relazioni, se alziamo lo sguardo sull’unità, sul bene che si può raggiungere e che non può essere ottenuto nell’ostinarci ad avere ragione, sempre e comunque.
Questo accade anche nell’intimo di noi stessi quando siamo attraversati dai nostri conflitti interiori: se li accogliamo nella visione globale della nostra vita li armonizziamo e ci permettono di accedere a un livello di integrazione e di consapevolezza, altrimenti diventano fonte di nevrosi, di tensioni irrisolte che ci irrigidiscono e ci rendono tristi.
Terzo. La realtà è più importante dell’idea. Accogliere la realtà che viviamo più che inseguire le idee di come vorremmo che andassero le cose. È un principio capace di trasformare le amarezze e le delusioni che avvertiamo tra lo scarto di quello che abbiamo in testa e il riscontro reale di quello che ci circonda.
Quanta amarezza accumuliamo nelle nostre giornate, quante giare riempiamo di delusioni perché non accettiamo la realtà che è fatta non solo di quello che pensiamo noi, ma anche dell’ascolto degli altri. Finiamo così per costruirci dei castelli mentali, delle torri ideali, e per non essere più disposti ad ascoltare l’altro, ad ascoltare la vita.
Infine, il quarto principio: Il tutto è superiore alla parte. È una prospettiva che dilata gli orizzonti del nostro vivere. Siamo così spesso schiacciati sul nostro particolare che molte volte non riusciamo a vedere l’insieme della nostra vita, della storia del mondo, della chiesa stessa.
L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Il virus dell’individualismo ci inganna, ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando sicurezze individuali potessimo costruire un futuro migliore.
Il tempo è superiore allo spazio. L’unità prevale sul conflitto. La realtà è più importante dell’idea. Il tutto è superiore alla parte. Quattro chiavi che possono aiutarci nella trasformazione possibile delle condizioni con cui affrontiamo il nostro tempo.
Siamo chiamati ad essere un po’ come quei servi di Cana che si sono resi disponibili ad aiutare gli altri a ritrovare la gioia del Vangelo.
Quando qualcuno vive solo di calcolo, mostriamo la gioia della gratuità.
Quando qualcuno ha fretta di cambiare le cose, mostriamogli la bellezza dell’ascolto.
Quando qualcuno è indurito nel conflitto, accompagniamolo a scoprire la ricchezza del dialogo.
Quando qualcuno è intollerante e chiuso, aiutiamo a trovare la bellezza della fraternità umana.
In questa settimana in cui preghiamo per l’unità dei cristiani, come discepoli di Cristo impariamo davvero noi per primi a vivere l’unità come superiore a ogni conflitto.
Invochiamo con tenacia lo Spirito di Dio che può trasformare quello che noi non riusciamo e non sappiamo trasformare.
(Gv 2,1-11)