III GIORNO DELL’OTTAVA DEL NATALE - San Giovanni Evangelista - Gv 21, 19c-24


Il quarto vangelo inquadra tutta la storia di Gesù tra due testimonianze: all’inizio la testimonianza di Giovanni il Battista e poi al termine della narrazione quella di Giovanni il discepolo amato, come conclude la pagina di oggi: questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte.

Giovanni Batista l’abbiamo a più riprese incontrato nella liturgia di avvento, oggi questa domenica che segue immediatamente il Natale ci consegna la festa liturgica appunto dell’altro Giovanni, il discepolo amato (il cui nome, tipicamente ebraico, significa “il Signore ha fatto grazia”, il Signore è stato benevolo).

Giovanni è stato tra i primi chiamati, anzi le prime due coppie di fratelli che Gesù chiama con sé fin dall’inizio sono appunto quella di Giacomo e Giovanni e di Pietro e Andrea, quando scrive il vangelo Giovanni ricorda ancora l’ora in cui ha incontrato Gesù: erano le quattro del pomeriggio.

Sappiamo anche che il padre di Giacomo e di Giovanni si chiamava Zebedeo , il quale aveva insegnato ai figli il mestiere di pescatori, sembra gestissero una piccola azienda famigliare di pescatori.

Sappiamo anche che la loro madre, come ogni madre, desiderando un futuro di prestigio e di successo per i propri figli un giorno chiese a Gesù per i due figli due posti di riguardo (Mt 20, 20-22).

Diventato discepolo di Gesù, Giovanni è testimone privilegiato nelle occasioni più significative della vita del Signore: quando Gesù compie la prima risurrezione (della figlia di Giàiro); partecipa con Pietro e Giacomo alla trasfigurazione sul Tabor; fa parte del ristretto gruppo di tre che dovrebbero pregare accanto a Gesù nel Getsemani …

E poi lo incontriamo ai piedi della croce, in una scena drammatica e di portata simbolica, dove come discepolo amato è invitato dal Cristo a prendere il suo posto di figlio presso sua Madre.

Ma c’è un’immagine che più di ogni altra ce lo indica come il discepolo amato, quando nell’ultima cena lo vediamo sdraiato a mangiare – come era consuetudine – quasi poggiandosi sul petto del Signore.

È questa un’immagine intensa perché sappiamo che Giovanni occupa in rapporto al Cristo lo stesso posto che il Cristo secondo il prologo ha con il Padre: Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio che è Dio e che è nel seno del Padre è lui che lo ha rivelato (1, 18).

Proprio da questo legame profondo come discepolo amato, Giovanni da pescatore di Galilea può giungere ad essere, come lo chiama la chiesa orientale “Giovanni il Teologo” e a scrivere quelle pagine stupende che andiamo leggendo ancora del suo vangelo e che risuonano anche nella prima lettura della liturgia di oggi e che quasi fanno da eco al prologo: quel che era da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto, quello che le nostre mani toccarono del Verbo della vita … noi lo annunciamo a voi.

Sì, potremmo obiettare, però Giovanni ha potuto scrivere queste cose perché aveva un rapporto speciale con Gesù, come afferma anche nel passo di oggi: «quel discepolo che Gesù amava», e allora anche Gesù aveva delle preferenze!

Ed è un’obiezione ragionevole, che umanamente possiamo accettare, ma dobbiamo anche notare che nel quarto Vangelo Giovanni non mette mai il proprio nome accanto al titolo di “discepolo amato”.

Giovanni è restio a scrivere il suo nome, anzi non lo scrive proprio, lo farà solo nell’Apocalisse, e potrebbe averlo fatto per umiltà o piuttosto per invitare ciascuno di noi a individuare questo discepolo amato con il proprio nome.

Perché va bene che Giovanni fosse il discepolo amato, ma – dobbiamo chiederci – qual è il discepolo che Gesù non ama?

Al discepolo che Gesù ama – cioè ciascuno di noi – non viene chiesto di amare, ma di farsi amare da Cristo e di rimanere nel suo amore.

2. Nella pagina evangelica di oggi abbiamo l’ultimo colloquio tra Pietro e Gesù. Appena prima il Signore aveva rivolto a Pietro per tre volte la domanda: «Mi ami tu?». Con la risposta di Pietro si riconferma quello che con il triplice rinnegamento sembrava avesse fatto vacillare, ovvero il ruolo di Pietro. Pietro, nel Quarto Vangelo, come per gli altri evangelisti, è il capo del gruppo apostolico, il capo della missione, la roccia su cui è edificata la Chiesa, oggi diciamo è il Papa.

Quando Pietro riceve la conferma del suo ruolo allora si preoccupa di Giovanni e chiede al Signore: «Cosa sarà di lui?».

La risposta del Cristo è molto importante: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi».  Come se dicesse a Pietro: va bene che tu sei il capo, a te ho affidato il compito di pascere il mio gregge, ma appunto il gregge non è il tuo, è sempre mio, dice Gesù.

Affidate a Pietro le pecore non cessano di appartenere al Signore. Perché nessuno nella Chiesa può prendere il posto del Signore Gesù. L’amore personalissimo del Cristo che raggiunge ogni battezzato, dà la giusta gerarchia dei vari ministeri, dal parroco, al vescovo, fino anche a Pietro, al Papa.

Qui abbiamo un insegnamento prezioso per come si vive la comunione nella Chiesa di Cristo.

Pietro è il capo della comunità ecclesiale e l’altro è il semplice discepolo, ed è lui che correndo con Pietro arriva per primo al sepolcro, ma aspetta che arrivi Pietro per lasciarlo entrare per primo, anche se è di lui, di Giovanni che scrive: «vide e credette» (20, 8).

Giovanni rappresenta il semplice discepolo, quello che Gesù amava e che si lascia amare da Gesù.

I due discepoli, Pietro, il pastore e ministro della Chiesa nella sua visibilità di gregge e l’altro discepolo amato anonimo, impersonano due ruoli ecclesiali distinti, ma non separabili. Si tratta di due figure dell’indivisibile evento cristiano.

Anche Pietro è chiamato ad essere discepolo, a farsi amare da Gesù, per poterlo riamare tre volte e pascere il gregge, fino seguirlo e arrivare a dare la vita per lui.

L’altro discepolo è figura di tutti i discepoli amati dal Signore che sono mandati a rendere testimonianza del vangelo di Gesù «fino a che Egli venga».

Ma la domanda di Pietro non è solamente la domanda di un capo che voglia conoscere tutto dei suoi sudditi, è piuttosto la domanda di un amico desideroso di rimanere con l’amico.

L’amore di Gesù, non ci chiederà mai di non amare coloro che incontriamo nel cammino della vita, coloro che amiamo e che ci amano, ma la maniera di amarci tra noi come sua chiesa dovrà essere sempre condizionata dalla nostra sequela di Gesù.

Potremmo rileggere le parole del Signore come se dicesse: «Se tu Pietro vuoi stare con lui, segui me, non devi far dipendere il tuo seguire il Signore dall’aspettare che egli venga con te».

Perché è rimanendo dietro al Signore l’unico modo di rimanere insieme per coloro che amano Gesù e che Gesù ama.

L’unico modo di stare insieme è di stare con il Signore, seguire lui, amare lui, guardare a lui, così anche la nostra amicizia sarà salva e non il contrario.

(1 Gv 1, 1-10; Rm 10, 8c-15; Gv 21, 19c-24)