VII DOPO PENTECOSTE - Lc 13, 22-30
Quante volte nella vita ci è capitato di ricevere una porta in faccia! Magari anche solo in maniera figurata, però ci siamo rimasti male nel momento in cui anziché ricevere ascolto, disponibilità, accoglienza… abbiamo incontrato freddezza, indifferenza, chiusura o anche solo parole di circostanza.
Ad essere onesti però, dobbiamo pensare anche alle volte in cui noi stessi abbiamo agito così, ci siamo irrigiditi, chiusi, abbiamo preferito tutelare la nostra tranquillità, la nostra libertà e così abbiamo sbattuto le porte in faccia a chi ci importunava, magari lo abbiamo fatto anche elegantemente, ma il risultato è stato lo stesso.
Ad una prima lettura anche le parole di Gesù ci fanno pensare che anche Dio un giorno possa chiuderci la porta in faccia: Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia! Sono parole pesanti, anche perché questo essere lasciati fuori significa pianto e stridore di denti!
In realtà dipende da noi, dipende molto da noi. Probabilmente Gesù ha visto o ha anche vissuto l’esperienza di chi arrivato di sera troppo tardi alle porte della grande città si è trovato il portone d’accesso chiuso, sprangato, con le guardie a presidio per difendere i cittadini che sono rimasti dentro.
Fuori dalle porte delle grandi città, al tempo di Gesù e anche nelle epoche successive, i pericoli erano seri: briganti, saccheggiatori, ladri, nemici… Però dobbiamo anche ricordare che quando al calare della notte il pesante portone veniva chiuso, c’era sempre, in esso o accanto ad esso, un piccolo pertugio attraverso il quale si poteva passare, piccolo al punto che poteva passare una sola persona per volta. A quel punto l’importante era farsi riconoscere. L’unica condizione per entrare consisteva nell’essere riconosciuti.
Molti di coloro che ascoltavano Gesù presupponevano di essere già dentro: con tutto quello che facevano per il tempio, per la legge, per Dio! Era dato per scontato che loro fossero già dentro, si ritenevano tranquillamente dalla parte giusta.
Abbiamo mangiato alla tua presenza (facciamo la comunione), hai insegnato nelle nostre piazze (conosciamo il catechismo), perché non apri? Potremmo tradurle così per noi oggi quelle parole.
E Gesù: lottate, agonìzeste agwni¿zesqe, combattete, lottate per entrare per la porta stretta. L’aggettivo un pochino ci inquieta. Noi pensiamo subito che “stretto” significhi sacrifici e fatiche, come se la vita di per sé non ce ne offrisse abbastanza e Dio ne avesse bisogno di altri…
Ma non c’è solo questo significato, anzi l’idea della porta stretta intesa come porta per pochi, per i più bravi viene ribaltata, perché la porta stretta, quando il portone è chiuso, sta ad indicare piuttosto che c’è sempre una possibilità.
Se anche trovi il portone chiuso, c’è comunque un passaggio, stretto, ma esiste, come Gesù dice di se stesso nel vangelo di Giovanni: «Io sono la porta» (10,9). Certo è un poco stretta, ma è pur sempre un passaggio possibile! Lo dice il verbo “salvarsi” che nel vangelo è al passivo, un passivo divino, per dire che la via d’uscita viene sempre da Dio.
Ce lo ricorda la prima lettura quando racconta il passaggio del Giordano per mano di Giosuè. Nell’organizzare un guado collettivo poteva sembrare che tutto alla fin fine dipendesse esclusivamente dallo sforzo umano, dall’intelligenza e dalle capacità di Giosuè e company.
Quanti attraversamenti sono stati fatti nella storia senza scomodare l’Eterno. Ma la Scrittura ci insegna che Giosuè non potrà mai dire: Noi abbiamo fatto attraversare a Dio il fiume Giordano! Noi l’abbiamo introdotto nella terra della promessa… Oggi avremmo esaltato le capacità organizzative, la razionalità, l’intelligenza strategica di Giosuè e dell’uomo in genere.
Quelle dodici pietre prese dal Giordano e trasportate sul terreno saranno il memoriale per raccontare la storia in un modo altro: raccontarla in modo che sia sempre chiaro Chi è il protagonista.
I dettagli del racconto stanno a indicare questo. L’arca dell’alleanza sta al centro del fiume come ad aprire la strada: quando il popolo è passato, allora passerà anche l’arca che prima è andata avanti in mezzo al fiume e adesso può chiudere la processione. Quelle dodici pietre rimarranno sull’altra riva a perenne memoria, così che chiunque passerà di lì potrà domandarsi: perché Israele è passato? Perché il Signore ha aperto la strada.
Al giorno d’oggi magari ci capita appunto di trovarci delle porte in faccia, ma più frequentemente passiamo davanti a tante porte che invitano ad entrare promettendo una felicità che poi noi ci accorgiamo che dura un istante soltanto, che si esaurisce in se stessa e non ha futuro.
Quella di Gesù è una porta stretta, non perché sia una sala di tortura. La porta è stretta, perché è a misura di bambino e di povero: Se non sarete come bambini non entrerete… La porta è piccola, come i piccoli che sono casa di Dio: Tutto ciò che avete fatto a uno di questi piccoli l’avete fatto a me… La porta è stretta perché è larga quanto il legno di una croce.
Quello che Gesù rimproverava ai suoi contemporanei che presumevano di essere già dentro, vale anche per noi che ci diciamo discepoli e discepole di Gesù, è che avevano smesso di lottare, di lavorare su di sé, di compiere un autentico cammino spirituale e non solo di fare cose religiose.
Purtroppo i nostri gesti liturgici, l’appartenenza alla parrocchia, al gruppo, al movimento, la frequentazione dei pastori posti dal Signore nella sua chiesa… sovente possono diventare false sicurezze, alibi dietro ai quali ci nascondiamo per non combattere, per non lottare contro le nostre meschinità, per non porre un argine alle parole che dividono e calunniano, per non lavorare sui sentimenti di inimicizia e di orgoglio, per non reagire ai comportamenti omissivi, che non fanno il bene.
Perché è vero che magari non commettiamo il male seminando odio e violenza, non siamo quegli operatori di ingiustizia cui fa riferimento Gesù, ma basterebbe pensare al nostro comportamento omissivo, a quando non vediamo l’altro e non ci impegniamo per chi è nel bisogno, per chi è affamato, assetato, immigrato, nudo, malato, in carcere…
Quando crediamo di essere nell’intimità con il Signore, ascoltatori della sua Parola, nutriti dai sacramenti, proviamo a chiederci: chi è che escludo dal mio amore? Quali sono le persone cui ho chiuso le porte del mio cuore, della mia attenzione, della mia cura?
Non dimentichiamo il verbo iniziale usato da Gesù: Lottate! Non è tanto lo sforzo, come dice la traduzione, che sembra quasi che dobbiamo sgomitare e fare sgambetti per entrare dalla porta stretta. Lottiamo perché, come già diceva sant’Agostino, non ci capiti che: “In quel giorno molti che si ritenevano dentro si scopriranno fuori, mentre molti che pensavano di essere fuori saranno trovati dentro”.
Per la porta stretta che è Cristo deve passare tutta la nostra vita, ed è questa la lotta spirituale che non conosce tempi di vacanza né di riposo.
Vale a dire: voi ricevete un pane, ma non basta mangiare Gesù, che è pane, occorre farsi pane per gli altri.
Voi ricevete la grazia della fede, ma non basta essere credenti, occorre anche essere credibili.
«La fede vera si mostra non come uno parla di Dio, ma come parla e agisce nella vita, da lì capisco se uno ha soggiornato in Dio» (S. Weil), per non essere noi a chiudere le porte in faccia a Cristo.
(Gs 4, 1-9; Lc 13, 22-30)