III DI QUARESIMA o Domenica di Abramo - Gv 8, 31-59
C’è, nelle parole di questa pagina di Vangelo, una violenza che fa paura. Fa paura perché dopo tanto discutere le parole alla fine diventano pietre. La tensione è tale che va oltre la discussione e il confronto tra pareri e opinioni diverse… è un conflitto il cui unico esito possibile pare essere quello della violenza che facilmente diventa omicidio.
Se poi guardiamo da vicino i soggetti della discussione, vediamo che c’è Gesù da una parte e dall’altra quei Giudei che gli avevano creduto. Immaginiamo se non gli avessero creduto! O forse è proprio perché gli avevano in qualche modo prestato fiducia che reagiscono così, perché Gesù li mette di fronte al loro vero comportamento.
La violenza delle parole, il linguaggio rancoroso e aggressivo come continuamente andiamo registrando anche ai nostri giorni ci devono preoccupare e di questo dovremmo temere, di una continua violenza nel linguaggio che è già di per se un segnale che ci deve far pensare.
Se un gruppo reagisce con tale veemenza e violenza non è solo perché è a corto di argomenti, ma anche perché viene toccato sul vivo, nei propri oscuri interessi, nelle trame nascoste di controllo e di dominio.
Se uno come Gesù ti viene a dire: guarda che tu ti riempi la bocca di Abramo, ma di Abramo proprio non hai nulla, anzi non fai nemmeno un 5% di quello che ha fatto Abramo… qualche problema c’è.
E ci vuole qualcuno che te lo dica. Non è che per quieto vivere fai finta di niente, non dici le cose come stanno. L’altra sera partecipavo a uno spettacolo teatrale ispirato al libro “Lacrime di sale” di Bartòlo medico a Lampedusa e un diacono al termine degli interventi si è alzato a dire: “Noi non dobbiamo ritenerci buoni perché accogliamo e considerare gli altri cattivi, perché innalzeremmo dei muri mentre li vogliamo abbattere…”. E no, non è che va tutto bene per il quieto vivere. Il male, l’ingiustizia, la falsità, la violenza e l’impostura dobbiamo chiamarle col loro nome!
Questo è ciò che fa Gesù dicendo loro: fate le opere di Abramo!
E cosa ha fatto Abramo? La prima cosa è stato avere una libertà tale che ha permesso ad Abramo e a Sarah sua moglie di partire dalla propria terra, di obbedire alla parola di Dio e di andare in un posto che non solo non conoscevano, ma che non sapevano nemmeno quale dovesse essere.
Certo Dio ha fatto loro la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia del deserto, ma in realtà né Abramo né Sarah videro qualcosa di tutto questo, eppure non smisero mai di fidarsi di Dio. L’unico pezzo di terra che possedete Abramo se l’è dovuta comprare per seppellire Sarah.
Abramo poi si è comunque fidato di Dio anche nel momento in cui gli chiedeva il dono del figlio Isacco. Quel figlio tanto desiderato e cercato… eppure riconosciuto come dono di Dio e non come sua proprietà.
Ricordiamo anche la preghiera di intercessione per Sodoma, quasi una contrattazione come fossimo in un suk: Abramo che si mette a patteggiare con Dio perché forse si possono trovare dei giusti in quella città, e che anche per quei pochi non abbia a distruggerla.
Un’altra opera di Abramo è stata l’accoglienza dei tre ospiti stranieri sotto le querce di Mamre nell’ora più calda del giorno. Senza rendersene conto Abramo e Sarah hanno dato ospitalità a Dio in persona! E da allora l’accoglienza è sempre sacra, perché accogliendo il forestiero, accogli Dio.
Abramo e Sarah – mi piace pensarli insieme – non sono solo due immaginette da tenere nel portafoglio come portafortuna, due giganti nella fede da ammirare, ma sono due persone che hanno vissuto una fede concreta, vera, reale nei fatti e pagando di persona.
Ora ci si può riempire la bocca di parole e di valori… eppure la nostra vita navigare anni luce lontana dalle opere di Abramo e non perché siamo poveri diavoli che fanno fatica, ma perché riduciamo la religione a uno strumento, a un mezzo per interessi particolari, per un’ideologia costruita sul trinomio “Dio, patria e famiglia” che però lascia morire i poveri, rimanda indietro chi ha il colore diverso della pelle e si scopre quasi per caso razzista.
È gravissimo perché uno può essere religioso e devoto, invocare la fede dei padri e delle madri, uno può essere credente, anche cattolico… ma non essere discepolo di Gesù.
La religione nelle vicende della storia è stata spesso asservita alle ideologie, è stata spesso piegata alla ragion di stato al caro prezzo di lapidare il Vangelo. E su questo Gesù è chiarissimo: se ti appelli ad Abramo, cioè alla religione, ma poi non fai le opere di Abramo, fai quelle che Giovanni chiama le “opere del diavolo” e che sono l’esatto contrario di quello che hanno fatto Abramo e Sarah: non ascoltate, uccidete e siete impostori. Vale a dire: durezza di cuore, violenza e falsità.
Parole chiare, forti, senza mediazione, parole che fanno verità nei cuori dell’ipocrisia religiosa di chi anche oggi si serve della religione e che per questo reagisce con lo strumento che gli è più congeniale: la violenza. E se allora le parole diventavano pietre, oggi diventano proiettili.
Gesù è consapevole che se fosse stato zitto, avrebbe salvato la pelle, ma sarebbe stato complice di un sistema religioso iniquo, ingiusto, violento. Quanto abbiamo noi di questo coraggio? Siamo esperti ci cerchiobottismo, di compromessi, di mediazioni che pure sono necessarie, ma quando c’è di mezzo la vita della gente, della povera gente, quando c’è di mezzo il valore della vita umana non ci possono essere esitazioni né aggiustamenti.
Proprio come questa sera, in questa stessa ora alle 18.30 del 24 marzo del 1980, era un lunedì di quaresima, nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza di San Salvador, un colpo di fucile stroncava la vita del vescovo Oscar Arnulfo Romero. A sparare fu un sicario mandato da Roberto D’Aubuisson, leader del partito nazionalista, al quale nel 1983, nel suo primo viaggio in America Latina, Giovanni Paolo II strinse le mani in qualità presidente dell’Assemblea legislativa.
Erano cattolici anche gli assassini, si dicevano credenti e andavano a stringere le mani al papa!
Nominato arcivescovo di San Salvador, l’oligarchia terriera e militare gli offrì una Cadillac e un palazzo prestigioso, ma Romero non solo non accettò, rifiutò anche di presenziare al giuramento del dittatore.
Monsignor Romero in un’intervista otto giorni prima del suo assassinio disse: “Carter nella lettera che mi ha inviato dice che c’è il pericolo di una guerra civile: non è vero, è soltanto una miserabile scusa per continuare ad opprimere e ad assassinare i dirigenti delle organizzazioni popolari e persone semplici del popolo”.
Le sue denunce dell’ingiustizia sociale imposta dai militari si fondava su un anti-liberismo del tutto conforme al magistero sociale, denunciando lo scempio che latifondisti, multinazionali e servizi segreti americani facevano della povera gente salvadoregna, del suo popolo.
Furono numerosi gli eccidi degli oppositori e dei campesinos. Durante gli anni in cui fu arcivescovo Romero, furono ben quattordici i preti uccisi in El Salvador.
Il conflitto non era solo col mondo politico, attraversava la Chiesa stessa: nel maggio del 1979 alcuni vescovi scrissero a Roma per accusarlo, perché venisse rimosso, allontanato. E anche per questo la sua canonizzazione dovette attendere la ferma decisione di papa Francesco, nonostante le resistenze di alcuni uomini di chiesa, forse proprio al servizio di quella idea di religiosità che cerca sempre di sistemare le cose, di non ascoltare il grido dei poveri e dei disperati per non urtare il potere.
Nell’omelia della domenica 23 marzo 1980, l’arcivescovo disse: «Io vorrei fare un appello particolare agli uomini dell’Esercito e in concreto alla base della Guardia Nazionale, della Polizia, delle caserme: Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli contadini … Nessun soldato è tenuto ad obbedire ad un ordine contrario alla Legge di Dio».
Come risposta immediata gli organi di stampa fedeli al regime pubblicarono un’immagine di papa Giovanni Paolo II accompagnata da una frase del pontefice da intendere come monito: “Guai ai sacerdoti che fanno politica nella chiesa perché la Chiesa è di tutti”.
Non ci deve scandalizzare se la conflittualità abita anche la chiesa, perché la parola di Gesù, il Vangelo, è come una spada a due tagli che entra dentro le imposture, le doppiezze, le manipolazioni che tradiscono gli interessi di chi si vuol servire della fiducia e della religiosità della gente.
Siamo chiamati ad essere profeti di un futuro che non ci appartiene.
“Prima di essere cristiani, bisogna essere molto umani… Dio non disprezza i fatti concreti. Voler predicare senza riferirsi alla storia del luogo in cui si predica, non è predicare il Vangelo. Molti vorrebbero una predicazione così spirituale da lasciare soddisfatti i peccatori, una predicazione che non dica nulla agli idolatri inginocchiati al cospetto del denaro e del potere… In tempi conflittuali come i nostri, avanzano gli adulatori, i falsi profeti, quelli che si sono venduti preventivamente la matita e la parola. Ma quella non è la verità”.
“Sento pena per quei tanti scribacchini venduti, per le tante lingue che attraverso la radio si alimentano della stessa calunnia che producono. Spesso la verità non produce denaro bensì amarezza. Ma è meglio essere liberi nella verità che ricchi di denaro nella bugia”.
Ci affidiamo reciprocamente le parole di Romero affinché ci aiutino a fare verità dentro di noi: “Fratelli, volete sapere se siete autenticamente cristiani? Con chi vi trovate? Chi vi critica? Chi vi chiude le porte? Chi vi fa entrare in casa?”.
(Gv 8, 31-59)