DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima dell’anno liturgico - Mt 25, 31-46
Il discorso di Gesù è una di quelle pagine nelle quali ritroviamo il nesso, il punto di incontro tra il nostro essere cittadini e il nostro essere cristiani. Infatti credo che proprio nella separazione, nella spaccatura di queste due dimensioni stia gran parte delle condizioni di iniquità, di ingiustizia e di diseguaglianza che segnano il nostro Paese e non solo.
Quando mai? È la domanda che viene ripetuta e che segnala appunto la separazione tra fede e vita, tra responsabilità e preghiera.
Oggi ci manca la sapienza dei padri costituenti e avremmo bisogno della loro capacità di tradurre in pratica il principio evangelico come quello annunciato da Gesù che è anche un principio costituzionale scritto nell’articolo 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo… e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Settant’anni fa un paese devastato dalla guerra, dalla dittatura e dall’uccisione della libertà da dove poteva ripartire? Da un principio come quello della solidarietà condiviso da cattolici e non credenti, da atei e religiosi, nel quale anche i discepoli di Cristo hanno assunto i loro doveri inderogabili di solidarietà con e per tutti i cittadini e non solo per i cattolici o i cristiani.
Il termine stesso solidarietà rimanda alla solidità, non all’assistenza o alla beneficenza, in quanto significa essere responsabili ‘in solido’ di un debito comune di giustizia, di uguaglianza, di diritti. Significa non potersi sottrarre a un patto di convivenza civile e umana nel quale ciascuno si sente ed è realmente responsabile degli altri.
Quando Gesù afferma: avevo fame, avevo sete, ero prigioniero, ero forestiero… stabilisce i confini del principio di solidarietà, non proclama semplicemente quelle che la nostra tradizione ha chiamato ‘opere di misericordia’. Sono opere di giustizia, di convivenza civile e di umanità e questo i padri costituenti lo avevano capito perfettamente.
Un principio che contrasta e argina il dilagare della convinzione e della prassi di chi continua a credere che lo sviluppo economico in quanto tale sia garanzia di crescita, di giustizia, di diritti.
Alla stregua di questa convinzione – dura da cambiare – la solidarietà viene considerata una virtù per anime belle, un sentimento di vaga e superficiale compassione per i mali di tante persone, vicine o lontane, cui tutt’al più destinare un po’ di elemosina e di carità, senza mai interrogarci sulle cause e quindi senza mai incidere sui fattori che perpetuano una dinamica iniqua e ingiusta.
L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma come dice il termine stesso, una buona amministrazione della casa comune, così da occuparsi di distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Un’economia che si mette al servizio dei popoli, invece di continuare a considerare gli esseri umani e la natura stessa al servizio del denaro.
Se ci sono gravi ingiustizie, se continuano a crescere le disuguaglianze, se le periferie diventano autentiche polveriere di disagio sociale, se non c’è sviluppo umano… molte cause sono da ricercare appunto nella brama del profitto e nella sete di potere. È un dato di fatto che alcuni, pochi, diventano sempre più ricchi, mentre i poveri, la maggioranza, diventano sempre più poveri, e non già per demerito personale, ma perché non a tutti vengono offerte le stesse opportunità.
Molti governi sono così ingiusti e incapaci da essere in grado di tenere centinaia di persone per settimane in mare, o migliaia di persone in veri e propri campi di detenzione, privandoli della libertà in maniera del tutto arbitraria, credendo e facendo intendere di fare il bene del proprio popolo, e magari proclamano i valori cristiani, la difesa della patria… non importa se questo comporta il prezzo della vita per coloro che sono considerate vite di scarto, semplicemente perché di un altro colore o di un’altra paese.
Non è certamente fermando le navi che si combatte la tratta degli esseri umani considerato che esse soccorrono non più del 10% dei migranti che tentano la traversata. Evidentemente le tanto decantate ‘radici cristiane’ non attecchiscono in mare!
Siamo nel bel mezzo di quella che papa Francesco chiama la “bancarotta dell’umanità”. Sappiamo tutti cosa non si fa quando avviene la bancarotta di una banca, improvvisamente appaiono cifre enormi per salvarla, ma quando assistiamo alla bancarotta dell’umanità, allora no, ci chiudiamo nel nostro egoismo e così il Mediterraneo diventa sempre più un cimitero, i campi profughi luoghi di violenze e soprusi.
Cosa ci chiede Gesù? Non di fare la carità, ma di riconoscere i diritti dei popoli, la dignità delle persone soprattutto di coloro che nel Vangelo Gesù chiama i più piccoli, letteralmente i minimi. Si tratta di vedere negli ultimissimi della terra il nostro futuro: accogliamo, sostentiamo, integriamo, rispettiamo, facciamoci carico dei diritti di chi non ha diritti, perché nella solidarietà abita la più vera esperienza di Dio!
Quale rivoluzione teologica: ci hanno sempre insegnato a cercare Dio nel tabernacolo e lui che ci sospinge fuori di qui a impegnarci per il bene comune e a lottare contro l’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria, rimettendo al centro delle politiche e dell’economia le persone, il bene comune, la città dell’uomo, perché lì c’è Dio.
Quando mai? Si chiedono le persone, tutte, di entrambe le categorie. Quando mai Gesù è nel malato, nel povero, nell’affamato, sulla nave in mezzo al Mediterraneo, nel campo profughi in Grecia o in Turchia? Quando mai? Ecco la nostra irresponsabilità: non credere che quello che facciamo a uno dei più scartati, degli ultimissimi sia fatto a Cristo. Ancora operiamo la scissione che Gesù è venuto a ricomporre: non puoi dire di amare Dio, se non ami l’altro, l’ultimissimo della terra.
Ma Cristo, e quindi Dio stesso in definitiva, che interesse avrebbe a identificarsi con le categorie degli sfigati? Che gliene viene? Cristo ci ricorda che ciò che impariamo a fare a lui, lo facciamo a noi stessi, alla nostra convivenza. Essere solidali significa pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. Significa lottare contro le cause strutturali della povertà, delle disuguaglianze, della mancanza di lavoro, di terra e di casa, della negazione dei diritti sociali e lavorativi.
Essere solidali significa far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta delle persone, lo spaccio di droga, il commercio delle armi, la violenza e le guerre.
Essere solidali è fare la storia, è un modo di dare un futuro alla storia. Papa Francesco, rivolgendosi ai Movimenti Popolari nell’ultimo incontro ebbe questa felice espressione: Voi siete poeti sociali in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità[1].
Facciamo di ogni nostro gesto, di ogni atto poetico un vero atto politico, un gesto di cura per la città, per il mondo in cui abitiamo.
Le parole di Gesù di Nazareth sono le parole di un poeta in azione, di un visionario che aveva però il senso pratico della vita. Un uomo libero e liberatore. Sono sempre rimasto attratto da quel Gesù dal «cuore di donna» come diceva Alda Merini: una sintesi affascinante di bellezza e di giustizia, di poesia e di visione politica.
Il poeta Gesù si scontra con un potere sacralizzato che tende a togliere la libertà, umilia la giustizia e proibisce l’amore. Resistiamo alla tentazione del potere per controllare la vita. Piuttosto non abbiamo paura di commuoverci con chi soffre e piange: è la pioggia che ci cade dagli occhi che fa germogliare i semi di futuro. Indigniamoci per l’ingiustizia e le disuguaglianze.
Allora avrà senso pregare che venga il regno, perché noi per primi abbiamo deciso di stare dalla parte in cui abita il Signore Gesù.
(Mt 25, 31-46)
[1] 16 ottobre 2021