DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima domenica dell’anno liturgico - Gv 18, 33c-37
Le battute che abbiamo ascoltato non sono il resoconto stenografico degli atti processuali che hanno condotto alla condanna a morte di Gesù. Non sappiamo quali siano le fonti cui attinge Giovanni, se direttamente il Risorto che ne ha parlato con i suoi dopo Pasqua oppure alcuni testimoni oculari che ne hanno fatto un qualche resoconto… forse anche entrambe le cose. Di sicuro non siamo davanti a un processo “normale”, anzi forse non è nemmeno un processo, inteso in senso stretto.
Giovanni, più degli altri vangeli, è molto attento a indicarci come Pilato abbia vissuto quell’incontro con Gesù, i suoi pensieri, le sue perplessità, i suoi stati d’animo. Certamente lui è figura istituzionale, è il quinto procuratore romano in terra d’Israele che ha già condannato e assolto decine di persone, ma oggi si rende conto di avere innanzi a sé una persona non solo innocente, ma l’unica in tutta la sua carriera, che alle domande di rito non risponde semplicemente «sì» o «no» ma osa porre altre domande… e che domande!
Dovremmo leggere per intero tutto il testo di Giovanni per cogliere l’intensa drammaticità di quelle ore, nello scorrere delle quali si assiste quasi il rovesciamento delle parti, tanto che se aggiungiamo un versetto alla pagina di oggi Pilato arriva a domandare a Gesù 38«Cos’è verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Fino a giungere al cap. 19,8: All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Da dove ti viene Pilato questa paura? Da quando un giudice teme l’imputato? Forse perché sei dibattuto tra l’ascoltare i sogni di tua moglie e le voci agitate della folla, forse perché sei tentato di ascoltare questo giovane profeta di Nazaret, ma anche di assecondare le esigenze del tuo ruolo di funzionario dell’impero che risponde direttamente a Tiberio?
Non augurerei a nessun magistrato di essere stato al posto di Ponzio Pilato, nemmeno per la fama che ancora lo accompagna. Risulta essere più ricordato e nominato dello stesso imperatore Tiberio. Il suo è il solo nome che il Concilio di Costantinopoli (381) introdusse nella professione di fede: il nome di un oscuro procuratore romano che ha esercitato in Giudea per una decina d’anni (dal 26 al 36 d.C.) e che noi continuiamo ad accostare ancora oggi alla passione e morte di Gesù: «…patì sotto Ponzio Pilato».
C’è un altro livello di complessità della questione, perché sulle spalle del procuratore romano sta il peso della trama intessuta dall’aristocrazia ebraica sadducea, padrona virtuale del Sinedrio e dell’amministrazione del Tempio. Pilato subisce in qualche modo questa congiura volta a sbarazzarsi di Gesù, la cui predicazione agli occhi di chi l’aveva ordita avrebbe potuto significare la disintegrazione dell’identità nazional-religiosa giudaica.
Infatti il capo d’accusa che Pilato pronuncia all’inizio: Sei tu il re dei giudei? è un’espressione ambivalente, nel senso che per Pilato queste parole hanno un significato e per l’aristocrazia ebraica ne hanno un altro.
L’accusa che è stata riferita a Pilato, Ha detto di essere il re dei Giudei (19,21), è la trasposizione sul piano politico del termine ebraico messia, con un’accentuazione politica molto più marcata, perché se avessero detto a Pilato: Gesù dice di essere il messia, Pilato li avrebbe liquidati rapidamente avrebbe ritenuto la questione un affare interno degli ebrei e non l’avrebbe minimamente presa in considerazione.
Dire che Gesù è il re dei giudei, è una denuncia vera e propria di un tentativo, come tanti ce n’erano in quegli anni, di rovesciamento del potere, di terrorismo, di minaccia per la sicurezza dello Stato. E su questo il procuratore romano non poteva fare finta di nulla.
Ma è qui l’assurdo. L’aristocrazia giudaica odiava Gesù proprio perché non corrispondeva alla loro idea messianica nazionalista. Aveva parlato di beatitudini, di perdono, di preghiera per i nemici… ed è proprio per questa idea di messia che non potevano servirsi di lui! E ora lo portano in giudizio da Pilato accusandolo di rivendicazioni presunte di tipo nazionalista! Cosa non si fa per il potere.
Quando dunque Pilato gli pone la domanda: Sei tu il re dei Giudei? Gesù non poteva rispondere semplicemente con un sì o un no… Non poteva dire «sì», perché niente era più lontano da lui che fare rivendicazioni patriottiche, ma non poteva nemmeno dire «no» perché sapeva di essere il messia, il discendente della casa di Davide, un re come dicevano le Scritture e non alla maniera dei potenti di turno.
Così quando Gesù afferma che il suo regno «non è di qui», Pilato appare intimamente convinto che quest’uomo non sia un delinquente politico, non sia un terrorista… tutt’al più è un sognatore, un idealista che esercita su di lui un certo fascino, lo costringe a pensare… ma deve pur salvaguardare il suo ruolo, così vorrebbe liberarlo… per liberarsene!
La situazione ha del paradossale. Non dimentichiamo che Gesù sta davanti a Pilato, ammanettato, legato, perché così glielo hanno condotto le guardie del Sinedrio (18,24), poi sarà flagellato… invece il procuratore sta seduto sul suo bema, lo scranno del giudice da dove esercita il potere di vita e di morte sulle persone.
C’è una verità che suona straniera per Pilato ed è quest’uomo Gesù legato, accusato, schernito… estraneo alle lotte di potere, che non impone la sua verità, non l’afferma né la sbandiera con arroganza, ma è lì davanti a lui mite e inerme. Gesù è vero, lui è quello che ha detto fin da quel giorno sul monte delle Beatitudini. È la verità in persona, una verità straniera!
In questo senso non è stato solamente un processo, ma fin da subito, dalle prime battute e sotto la formale parvenza di un interrogatorio, assistiamo a uno straordinario dialogo, una sorta di duello disperato tra Pilato, convinto fino all’ultimo della sostanziale innocenza dell’uomo che ha davanti e il Nazareno, incurante di difendersi, ma interessato solo a ribadire il senso della missione profetica assegnatagli dal «Padre».
Un dialogo disperato che si tramuta ben presto, da parte del prefetto romano, nella spasmodica ricerca di una verità in qualche modo sempre più intuita, anche se rimane sempre sulla soglia delle domande: «Di dove sei?» (19,9).
Qui accade qualcosa di più di un confronto tra due persone, tra uno giudice e un imputato… e poi vai a capire chi il giudice e chi è l’imputato. Una cosa è evidente e dopo duemila anni lo possiamo ben dire: qui si cambia la storia del mondo, qui avviene l’incontro ha segnato e continua a segnare la vita di tutti, credenti e non, atei e agnostici… non saprei come definirlo perché è un processo, è un conflitto, è una discussione, ma è anche una contraddizione tra giustizia e verità, ed è anche molto altro… È una sorta di confronto ravvicinato tra cielo e terra che a un tratto diviene un confronto tra Dio e Cesare.
In nessun altra pagina scritta della tradizione occidentale i due poteri si sono misurati, viene da dire “si sono parlati”, in una misura altrettanto intensa e in un modo altrettanto ultimativo. Contribuendo in modo determinante a segnare il percorso storico della nostra civiltà.
Davanti a Pilato, Cristo con le sue parole («il mio regno non è di qui»), avvia una gigantesca rivoluzione, rompe l’identità tra potere religioso e civile, l’identità tra comunità politica e ordinamento religioso, tra potere e salvezza: insomma quella tragica dimensione teocratica che era stata propria del monoteismo ebraico e che alcune religioni ancora oggi vorrebbero perseguire.
Ma di cui non è esente nemmeno la storia cristiana. Purtroppo quando la Chiesa si è innestata nelle strutture imperiali ha addirittura imposto per legge la verità: esattamente il contrario di quello che Gesù dice e fa qui, vale a dire non più essere testimonianza della verità, ma presumere di avere la verità e di imporla. In qualsiasi modo.
La contraddizione Pilato-Gesù, è la contraddizione della storia cristiana che è stata da un lato testimonianza e martirio, ma dall’altro e contemporaneamente sopraffazione, imposizione della verità, guerre di religione… Mentre Gesù è guidato da una logica altra, che non è di qui, è un altro il regno.
E Pilato sembra intuirlo, arriva anche a pensare che cosa sia giusto fare, ma è qui il dramma che culmina con la domanda: cos’è verità? Senza l’articolo, si noti bene e lo chiede all’imputato che sta lì davanti a lui ridotto in quel modo, ma che proprio per questo lo induce a chiedersi se sia possibile essere veri, se lui stesso possa esserlo a discapito del suo ruolo, del suo potere e in definitiva della sua vita.
È la domanda di un procuratore romano, di un uomo politico e noi sappiamo che la cosa che più temono in generale i politici è la verità. Infatti la domanda rimane sospesa, rimane sospesa fino al momento in cui Pilato consegna il profeta di Nazaret ai suoi accusatori dicendo: Ecce homo, idou o antropos, ecco l’uomo. E così dicendo, compie una professione di fede inconsapevole.
La verità, ed Pilato a dirlo, è quest’uomo, è un uomo ammanettato, umiliato, deriso… e questa è la faccia della verità che spaventa, perché si sa come va a finire. Certo Pilato vorrebbe una via d’uscita, vorrebbe chiamarsi fuori con il gesto di lavarsene le mani, ma è pura sceneggiata, in realtà lui è complice. È complice per motivi di opportunismo politico, di strategia di carriera… mettiamoci tutto quello che normalmente oggi continua ad essere la complicità che ci fa schiacciare un altro. Questa è la verità che spaventa, quella che ci fa stare un poco inquieti: chi sono io dunque, se sono capace di questa complicità?
Ed è il dramma di questa pagina che arriva fino dentro ciascuno di noi. Davanti all’Uomo Gesù che testimonia la verità amando fino in fondo, come aveva anticipato nell’ultima cena dicendo: Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici (15,13-14), c’è la folla che dimentica presto e si fa comprare, c’è Pietro che lo rinnega, Giuda che lo tradisce, Pilato che se ne lava le mani… Il dramma è che pare non si possa nella nostra vita essere veri, senza pagare il prezzo che il processo del mondo esige.
(Gv 18, 33-37)