IV DI PASQUA - Gv 10, 11-18
Quando Gesù dice di se stesso: Io sono il pastore, quello buono, quello bello praticamente dice: Io sono Dio. Perché dire Io sono per il lettore ebreo di lingua greca significava pensare subito al nome di Dio.
È stata proprio questa l’accusa che i capi del popolo hanno fatto a Gesù, un’accusa di idolatria: Tu che sei uomo, ti fai Dio! cosa del tutto inaccettabile per un ebreo monoteista.
Giovanni dall’inizio del suo Vangelo non fa che dire il contrario: non è l’uomo che si fa Dio, ma è Dio a farsi uomo. Dire che Gesù è, come diceva domenica scorsa, l’agnello di Dio vuol dire che Dio si è fatto uomo. Da Gesù in poi impariamo che Dio è umano, ha un volto d’uomo.
Infatti nelle sette volte (nel vangelo di Giovanni) in cui Gesù aggiunge alle parole: Io sono… un predicato, si tratta di qualcosa di molto umano: “Io sono il pane di vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta” (Gv 10,7.9); “Io sono il buon pastore” (Gv 10,11.14); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vera vite” (Gv 15,1).
Per dire cosa fa Dio, Gesù lo declina con metafore che dicono la cura per noi, lo dice con segni carichi di umanità. Come l’immagine del pastore nel vangelo di oggi, forse un po’ lontana dalla nostra cultura urbana, che tuttavia ha qualcosa da dirci in merito al mistero di Dio.
Perché pensare a Dio come a un pastore? Fare il pastore non era solo un lavoro che richiedeva del tempo e molto impegno; era un vero e proprio modo di vivere: ventiquattrore al giorno, vivere con il gregge, accompagnarlo al pascolo, dormire tra le pecore, prendersi cura di quelle più deboli… Gesù, in altre parole, non fa qualcosa per noi, ma dà tutto, dà la vita per noi.
Parlando di pastore e di gregge, spontaneamente intendiamo le sue parole come riferite ai discepoli e quindi di conseguenza alla chiesa, alla comunità cristiana… quindi a un gregge ben preciso. In realtà Gesù aveva uno sguardo più ampio, dilatato, capace di giungere fin dentro il cuore di ognuno: ho altre pecore che non provengono da questo recinto!
Perché questo è il desiderio di Dio e questo è il comando che ho ricevuto dal Padre. Gesù è pastore di tutti, perché Dio è Dio di tutti. Dio non è cattolico, anglicano, ortodosso o protestante. Dio è pastore anche di quelle pecore che non si sentono di nessun gregge, di nessun ovile. Siamo noi che scaviamo trincee e costruiamo muri per dividerci, per Dio siamo tutti figli amati.
E se non fosse sufficientemente chiaro, la riprova sta nel fatto che la bellezza di questo pastore, consiste nel suo essere disposto a dare la vita per me, per te, per noi. Certamente sappiamo come i capi, gli imperatori, i comandanti, i vari duci e ducetti hanno sempre chiesto e ancora continuano a esigere un prezzo di sangue elevatissimo pagato dagli altri… Gesù piuttosto è disposto a donare la sua vita per un popolo di Dio che è trasversale a tutte le frontiere, la cui appartenenza va oltre i confini.
Ora se noi osserviamo cosa ne è derivato nei secoli da queste parole di Gesù e guardiamo alla cosiddetta attività pastorale delle chiese, ci rendiamo conto di aver avuto pastori che come Gesù hanno dato la vita, hanno pagato il prezzo del Vangelo nella propria carne. Penso a Martin Luther King, a mons. Romero, a don Pino Puglisi… giusto per ricordare figure vicine a noi.
Dobbiamo anche riconoscere di avere avuto pastori corrotti, viziosi, pastori che si sono venduti al potente di turno, che hanno tradito il Vangelo in nome di una politica accomodante e rassicurante. Pastori che hanno dimenticato di avere ricevuto un affido e non un possesso: il gregge è di Dio e come pastori avrebbero dovuto far risplendere la volontà del Padre e non soddisfare la loro sete di potere e di gloria.
E poi perché pastori sempre al maschile? Dovremmo ricordare figure di donne che sono state esempi luminosi e di guida in momenti oscuri della storia: penso a Etty Hillesum testimone di speranza nel campo di concentramento, a Madre Teresa esempio di carità in un’epoca di individualismo, a Dorothy Day, operatrice di pace in una società sempre più armata.
Tutto ciò che vogliamo considerare ‘pastorale’ riscontra un criterio di verità nel fatto che deve corrispondere al pensiero di Gesù, vale a dire essere disposto a dare la vita e andare oltre i confini. Perché questo ha fatto Gesù. Tutto il resto è mercimonio.
Come Chiesa, per valutare la nostra opera pastorale, abbiamo bisogno di confrontarci sempre con l’unico pastore, Gesù. Un pastore, bizzarro, se volete… perché è disposto a lasciare le novantanove pecore che sono al sicuro per avventurarsi alla ricerca dell’unica dispersa. Ma così fa Dio: va oltre il razionale e il calcolo dell’utile perché ha un cuore che ha nostalgia di chi se n’è andato, e non gli piace quello sport che a noi riesce tanto bene, vale a dire bollare come avversari e nemici quelli che hanno preso altre strade.
Dobbiamo sintonizzarci più e meglio con la musica di Dio che Gesù ci ha fatto sentire: anziché suonare scomuniche, tuonare condanne, infliggere sentenze inappellabili che hanno l’effetto di restringere il perimetro del gregge dentro le mura rassicuranti di alcune verità di fede… siamo tutti invitati ad essere pastori della passione di Dio che nel Pastore Gesù dimostra di avere a cuore la vita di tutti. Alcune volte il pastore cammina davanti, altre volte sta in mezzo al gregge, in alcuni casi si ferma dietro con le più deboli… questo fa Dio con noi.
«Se noi cristiani non abbiamo questo amore… rischiamo di pascere solo noi stessi. I pastori che sono pastori di se stessi, invece di essere pastori del gregge, sono pettinatori di pecore “squisite”. Non bisogna essere pastori di se stessi, ma pastori di tutti»[1].
(Gv 10, 11-18)
[1] Papa Francesco, 18 gennaio 2023