VII DI PASQUA o Domenica dopo l’Ascensione - Gv 17, 11-19


(At 1, 15-26; Gv 17, 11-19)

È suggestivo che la preoccupazione di Gesù nella sua preghiera al Padre nell’ imminenza della sua passione, sia quella dell’unità dei suoi discepoli. Così dice il Signore: «Ti prego Padre … Perché siano una sola cosa, come noi».

Forse oggi anche siamo preoccupati per l’unità della nostra famiglia, dei nostri amici, della nostra comunità. In questo tempo siamo preoccupati anche per l’unità dell’Europa che sta attraversando una grave crisi e non solo economica. Vorremmo vedere una maggiore unità anche dell’umanità tutta…

Ma di quale unità stiamo parlando? e soprattutto quale unità chiede Gesù per i suoi? Cosa intende dire intercedendo presso il Padre perché i suoi discepoli siano una sola cosa?

Quando parliamo di comunione e di unità ci affacciamo su una galassia di significati e di pensieri, di sentimenti e di aspettative che non è facile ricondurre a un’univocità di significati, perché alcune volte la confondiamo con l’uniformità, altre volte con il sottrarci senza dire ciò che pensiamo; altre volte pensiamo che unità sia quella fusione che fa perdere i contorni e i confini del volto dell’altro…

Proviamo a cercare di capire a partire dalla parola di Dio di oggi, qual è l’unità che Gesù si aspetta da noi, qual è l’unità che egli domanda al Padre.

1. Gesù prega così: Che siano una cosa sola, come noi! Il Signore chiede al Padre di rendere partecipi i discepoli della comunione che già esiste tra loro. C’è già una comunione ed è quella che Gesù testimonia di avere col Padre, e qui noi potremmo fermarci subito, perché non possiamo fare speculazione, non possiamo indagare più di tanto. La teologia riconduce questa comunione al fatto della natura divina di Gesù, come diciamo nel Credo: Gesù nato da Padre… Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato ma non creato della stessa sostanza del Padre.

Più semplicemente possiamo affacciarci alla comunione tra il Padre e il Figlio, osservando la vita stessa di Gesù. Guardando al suo modo di parlare, alle sue azioni, ai segni che pone in atto, al modo stesso di amare.

Nelle parabole, ma anche nei suoi incontri con tutti ma soprattutto con i più semplici, il Signore vive e agisce come il Padre che va in cerca di chi si perde, che si mette sulle spalle chi fa più fatica, che ascolta chi in genere non trova spazio nei luoghi ufficiali…

La vita di Gesù è tutta lì a mostrare che il suo modo di pensare e di amare, di andare incontro agli altri e anche di fare verità nel cuore degli impostori è quello che farebbe il Padre e che guarda caso trova conferma nella storia biblica.

Infatti quando nei vangeli si citano passi del Primo Testamento è per dire che il quello che fa Gesù è analogo al modo di fare di Dio nella storia del popolo di Israele, così come il modo di agire del Padre trova compimento nel modo di parlare, di agire e di amare del Cristo.

Troppo banalmente si dice, anche tra i cristiani, che il Dio del Primo testamento è un Dio duro e crudele, guerriero; mentre il Dio di Gesù è tutto amore e misericordia.

Dobbiamo abbandonare queste letture frettolose, perché basterebbe prendere qualche pagina dei profeti come Osea o il Cantico dei Cantici, dove l’Eterno si presenta come un innamorato che è disposto a fare di tutto per la sua amata, che è appunto la sua gente, il suo popolo, e renderci conto così che le semplificazioni non ci aiutano e non rendono giustizia alla fede.

Analogamente Gesù nel Vangelo non manca di denunciare l’ipocrisia, la falsità, l’immoralità anche e soprattutto degli uomini religiosi. Gesù continua la lotta che già i profeti sostenevano contro l’idolatria.

Questo per dire che la continuità che esiste nella storia biblica e che conduce all’incontro con Gesù, è il segno evidente della comunione che c’è tra il Padre e il Figlio. Il Figlio viene infatti per portare a compimento la missione del Padre.

2. Ma, ed ecco il secondo punto, questa unità profonda non è confusione, perché il Padre è tale e il Figlio è in relazione al Padre. Non c’è fusione, né confusione. Il fatto stesso che Gesù rimandi alla sua comunione col Padre: «Come noi», significa che la comunione che il Signore domanda non è l’uniformità, il pensarla tutti alla stessa maniera, non è il consenso, il dominio di un’opinione sulle altre.

Infatti a ben guardare anche la comunione del Padre col Figlio e nello Spirito è, come diceva Tonino Bello, una convivialità delle differenze: non c’è fusione, non c’è confusione, sono una cosa sola, ma sono tre nella diversità. Ma cosa vuol dire concretamente questa unità nella diversità? come possiamo stare insieme noi alla stregua dell’unità che sussiste tra Padre e Figlio?

La prima lettura del libro degli Atti (1, 15-26) ci racconta di come la primitiva comunità abbia affrontato la questione dell’unità proprio intorno a un problema molto preciso e concreto qual era la successione di Giuda, al fine di mantenere il numero dodici.

A noi sta a cuore comprendere quali sono stati i criteri con i quali la comunità decise di muoversi.

Il criterio principale fu quello di scegliere uno «Tra coloro che sono stati con noi tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto con noi dal battesimo all’ascensione».

L’apostolo è uno che ha vissuto insieme ai Dodici con Gesù a cominciare dal suo battesimo fino all’ascensione, quindi testimone del Risorto. L’apostolo è colui che testimonia l’identità di Gesù terreno con il Risorto.

Dato questo criterio ne vengono indicati due: Giuseppe Barsabba e Mattia.

Pregano insieme, e per Luca questo è sempre un momento di grande importanza, la preghiera segna sempre i passaggi fondamentali della vita di Gesù prima e della comunità poi quando questa deve prendere decisioni importanti.

Certo ci pare discutibile la tecnica con la quale si giunge all’elezione di Mattia. L’estrazione a sorte ci pare insufficiente, infatti fu un modo un po’ arcaico di eleggere che venne poi ben presto sostituito da altre procedure come in occasione della nomina dei sette diaconi (At 6,3) o della scelta di Barnaba e Saulo: dopo che la comunità ha digiunato e pregato, impongono le mani (At 13, 2).

Ma notate in tutto il processo il soggetto è la comunità nella sua totalità. La decisione venne presa a partire non dal fatto che qualcuno potesse avanzare il diritto di detenere lo Spirito santo: ad esempio gli Undici potevano scegliere loro, d’autorità. Invece no, la comunità tutta insieme agli Undici si mette in preghiera.

In questo dinamismo gli attori sono tre: gli apostoli, la comunità e, attraverso la preghiera, il Signore stesso.

Un dinamismo che fu buona prassi nella vita e nella storia della Chiesa per lunghi secoli e che assunse il nome di “sinodalità”: come dice il termine stesso, si tratta di camminare insieme sulla stessa strada. A ognuno è riconosciuta la dignità di figlio amato dal Padre e come tale è importante il suo essere dono nella comunione, per questo parliamo di convivialità delle differenze. La diversità è una ricchezza, è un dono che va preservato e non temuto o soffocato. L’essere una cosa sola non significa uniformità, o peggio ancora conformismo.

Forse è giunto il tempo in cui pregare Gesù che doni alla Chiesa di ritrovare l’audacia della sinodalità per essere una sola cosa come lui e il Padre, se è vero che lo Spirito pervade tutta la Chiesa.