II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Mt 22, 1-14


Ci vuole un’apocalisse! Sì abbiamo bisogno di togliere il velo, perché questo significa apocalisse, abbiamo bisogno non già di una visione terrificante delle cose e del futuro, ma di togliere il velo sulle vicende del mondo.

Tra rigurgiti di nazionalismi, di nazismo e di fascismo ci dobbiamo davvero preoccupare se non sappiamo vedere altro che la ripetizione del passato, e quale passato, per affrontare le sfide del tempo.

La religione, la fede, la spiritualità devono dare oggi un contributo profetico a questa incapacità di comprensione e di visione. Non abbiamo una speranza, non abbiamo una prospettiva cui dare senso al tempo e allora risulta facile senza neanche tanta fatica, guardare la storia dallo specchietto retrovisore.

Non andiamo da nessuna parte se guidiamo guardando lo specchietto retrovisore, anzi è molto facile che andiamo a sbattere, che andiamo contro il muro, che ci facciamo davvero del male.

Ed è questo quello che Isaia dice alla sua gente, preoccupata come noi e incapace di guardare avanti. Isaia offre un’apocalisse, una visione, ed è capace di togliere il velo alla quotidianità per aiutare i suoi contemporanei a guardare oltre, cercando di individuare i segni esteriori e clamorosi che punteggiano le vicende concrete, cercando di costruire una diagnosi, una lettura che spieghi il mistero nascosto nel presente della storia e che sia capace di tracciare il futuro della storia.

Sul monte Sion il Signore prepara un pranzo sontuoso, regale, dove vengono invitati tutti gli uomini, di ogni razza e di ogni cultura senza alcuna distinzione.

Probabilmente era ancora vivo il ricordo di un banchetto che all’epoca era rimasto famosissimo: imbandito dal re di Assiria Assurnasirpal II (883-850) per l’edificazione del palazzo regale di Kalkhu (oggi Nimrud), città assira situata a sud di Ninive, sul fiume Tigri, vi furono invitate 69.574 persone e 47 mila lavoratori e il banchetto durò 10 giorni.

Poter invitare molti è segno di ricchezza, di potere, è ostentazione della propria superiorità… il profeta, con una certa dose di ironia, vede un futuro nel quale il Signore inviterà al suo banchetto non solo più gente di quanta ne era stata invitata dal re di Assiria, ma addirittura tutti i popoli e il banchetto del Signore sarà abbondante: i vini forti e le carni bovine si usavano nelle circostanze eccezionali quasi esclusivamente per i grandi banchetti di nozze reali.

Ai partecipanti viene offerto un primo regalo: viene fatta cadere dagli occhi l’impossibilità di vedere un futuro, viene tolto il velo che appanna la vista. Questo è il primo regalo che gli invitati ricevono: rendersi conto che il loro Dio è il Dio di tutti!

E proprio perché è l’unico Dio, non può lasciare nessun essere umano in balìa della morte. Ecco il secondo dono: la morte sarà annientata, quella maledizione originale sull’uomo (Gen 3) viene tolta per sempre. Dio è il Dio dei viventi, della vita.

La conseguenza è la consolazione che ogni essere umano ne riceve. Dio stesso passa amorevolmente ad asciugare le lacrime di tutti i volti, a consolare l’uomo del suo dolore…

E tutto ciò non può che concludersi con un inno alla gioia e il profeta introduce come un canto alla vittoria del Signore, tale vittoria, ancor prima della sconfitta dei nemici, è la salvezza del popolo che riconosce in Dio, la sua speranza: ecco il nostro Dio in cui abbiamo sperato perché ci salvasse.

Il coraggio del profeta in tempo di paure, di esaltazione dei confini e dei nazionalismi esorta ad alzare lo sguardo per vedere come l’umanità in definitiva è chiamata a stare insieme, come si sta insieme a tavola, e come debba imparare a considerarsi semplicemente invitata al banchetto della vita. In definitiva dice Isaia, Assiri, ebrei, persiani…. Siamo tutti invitati, tutti.

Non c’è un prima questi o prima quelli… ma tutti sono invitati da colui che ha dato a ciascun uomo la vita, l’intelligenza, la laboriosità, la coscienza… L’Eterno ha colmato ogni essere umano dei suoi doni e allora anziché perdere tempo ed energie a contrastarci, guardiamo l’orizzonte verso il quale siamo chiamati, e impariamo a collaborare, a stare insieme, a rispettare le differenze, con tutte le fatiche del caso.

È questa prospettiva, questa visione, questa apocalisse che ci permette di non guidare le nostre vite e quelle delle generazioni future guardando lo specchietto retrovisore, ma tenendo davanti ai nostri sguardi il sogno di Dio.

Ed è anche la prospettiva evangelica: Gesù riconosce che anche a molti dei suoi contemporanei non interessa questa visione del futuro dove tutte le genti sono comunque invitate da Dio a stare insieme.

E il perché è subito detto da Gesù nella parabola. Anzitutto, a molta gente non gliene importa nulla perché sono ripiegati sui propri affari, sul proprio campo, sui propri interessi e non riescono proprio a capire che se stiamo bene tutti insieme stiamo bene tutti. Credono invece che lo star bene del singolo sia possibile a prescindere dagli altri.

È un po’ come il sentirci sicuri: inutile inseguire una sicurezza che sia solo mia e non di tutti. È tempo perso e ci rende più ostili gli uni con gli altri.

Ecco è questa logica dell’ognuno per sé, ognuno per i fatti propri che di fatto significa chiusura, miopia e che è avulsa dalla realtà nell’inganno di credersi autosufficiente.

Altri invece credono che la storia vada avanti con la violenza, con la guerra, con l’industria delle armi. Molti sono sempre convinti della legge del più forte, del dominatore… presero i suoi servi li insultarono e li uccisero. Non sono capaci di altro che usare il potere della forza, della violenza, dell’umiliazione del più fragile, di scartare chi fa più fatica…

Ma il nostro è un Dio ostinato, più dei testardi che ignorano la storia, nel senso che non vede altro futuro per l’umanità che quello di stare al mondo insieme e così per la terza volta manda i servi ricevono a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita e di festa.

L’ordine del re è illogico: tutti quelli che troverete chiamateli. Tutti, senza badare a meriti, razza, moralità. L’invito potrebbe sembrare casuale, invece esprime la precisa volontà di raggiungere tutti, nessuno escluso.

Dai molti invitati passa a tutti invitati: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni, senza mezze misure, senza bilancino, senza quote da distribuire…

Il Vangelo annuncia un Dio che non cerca uomini perfetti, non esige creature immacolate, ma vuole uomini e donne incamminati, anche col fiatone, anche claudicanti, ma in cammino. È così è il regno di Dio. Pieno di santi? No, pieno di peccatori perdonati, di gente come noi. Di vite zoppicanti. Il re invita tutti, ma non a fare qualcosa per lui, ma a lasciargli fare delle cose per loro: che lo lascino essere Dio!

Infine c’è un ultimo aspetto che ci deve far pensare e siamo al v.11 del vangelo quando si dice che il re entrò nella sala… e si accorge che un invitato non indossa l’abito delle nozze. Tutti si sono cambiati d’abito, lui no; tutti anche i più poveri, non so come, l’hanno trovato, lui no; lui è entrato alla festa ma con la testa e la mentalità di chi era fuori.

È la nostra responsabilità di discepoli di oggi: stiamo attenti a non stare al mondo con il vestito vecchio, dove il vestito è l’habitus, vale a dire le nostre abitudini, i nostri comportamenti che non hanno imparato nulla dal sogno di Dio e stanno dentro la festa con l’atteggiamento di chi non ha capito proprio nulla.

Noi potremmo partecipare all’Eucaristia ma con l’abito vecchio, di chi non ha capito che Dio ama tutti gli uomini, che il Signore non fa preferenze, anzi se fa preferenze le ha nei confronti dei più piccoli, dei più deboli, di chi viene scartato…  Questo sì che è amore. E non è buonismo, ma capacità di visione della storia del mondo con lo sguardo e gli occhi di Dio.

(Is 25,6-10a; Mt 22, 1-14)