VII DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 13, 24-43

Nella spiegazione della parabola Gesù ci chiede di alzare lo sguardo dal campo, dove c’è tanto grano e non poca zizzania, su un orizzonte altro che è il punto di arrivo della storia: La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli(v.39).
Anzitutto, mettiamoci il cuore in pace: i mietitori sono gli angeli, nessuno di noi è costituito né giustiziere né sceriffo del Vangelo. Ci penseranno gli angeli. Ma è proprio così? Siamo sicuri di comprendere bene? Perché allora viene la voglia di lasciare che le cose vadano come vadano…
Aspettiamo gli angeli che alla fine faranno la cernita e lasciamo che pedofili e corrotti scorrazzino per la Chiesa? Papa Francesco anche l’altro ieri è intervenuto con le dimissioni di alcuni vescovi cileni e la rimozione di un cardinale americano che hanno coperto preti pedofili… e non dovrebbe farlo? Anzi per troppo tempo la Chiesa è stata complice silente e appare del tutto ovvio che debba intervenire e non lasciare crescere la zizzania, ci vorrebbe altro!
Eppure parrebbe ad una prima lettura della parabola che noi dovremmo tollerare il male, lasciarlo crescere, lasciare che “le zizzanie” infestino la chiesa e il mondo. Sì, le zizzanie: è curiosa questa cosa nel testo greco (che traslittera il plurale ebraico zuzanim), mentre il grano è sempre al singolare. Le zizzanie è un nome collettivo perché il male si manifesta sempre in una vasta gamma di sfumature: corruzione, mafia, violenza, imbrogli, odio, razzismo… e potremmo fare un lungo elenco.
Dunque, dovremmo rinunciare alla lotta alla violenza, alla corruzione, alle mafie, all’odio e al razzismo?
Gesù ci spinge ad avere anzitutto uno sguardo sulle cose dalla prospettiva della fine del mondo: La mietitura è la fine del mondo.
Una dimensione che noi abbiamo smarrito e perso di vista, ma che permane in tutta la sua verità: noi tutti, le vite di ciascuno di noi vanno verso questo momento e quindi anzitutto: ricordiamocelo perché è in atto una rimozione mentale, culturale, anche teologica dentro il pensiero cristiano della dimensione escatologica. Un po’ è dovuto anche al fatto che la fine del mondo è stata utilizzata per molto tempo come strumento di terrore, di paura, di controllo e di potere.
E se invece questo orizzonte – che per quanto lo possiamo rimuovere, è sempre vero, è lì – fosse la forza e il punto di snodo della nostra coscienza, del nostro impegno?
Nel senso che le nostre scelte etiche, morali, professionali potrebbero trovare la loro forza di impegno e di coerenza nella consapevolezza, e non nella paura, che andiamo incontro al giudizio, che andiamo vero il momento in cui ci troveremo faccia a faccia col Cristo.
Ma appunto non è questo a guidare l’etica anche dei discepoli di Gesù, anzi siamo più preoccupati del riconoscimento sociale che ci rassicura e ci fa sentire a posto nel mondo. Ha un grande peso per noi la considerazione che gli altri nutrono nei nostri confronti, è importante la stima che hanno per noi… ma il criterio decisivo per una coscienza che non sia autarchica o addomesticata, è di stare davanti a Cristo. Da qui può formarsi una coscienza libera e coraggiosa.
C’è un’espressione molto intensa di mons. Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo martire di San Salvador (+ 24 marzo 1980) che papa Francesco ha canonizzato quest’oggi, quando afferma: Nel cuore di ciascun essere umano c’è come una piccola cella, intima, dove Dio scende a parlare da solo con l’uomo. Ed è lì dove la persona decide il proprio destino, il proprio ruolo nel mondo. Se ciascun uomo o donna entrasse in questa piccola cella e da lì ascoltasse la voce del Signore che parla nella nostra coscienza, ciascuno di noi potrebbe fare tanto per migliorare l’ambiente, la società, la famiglia in cui viviamo.
Non è la paura del giudizio… a me sembra che Gesù non ci chieda nemmeno di stare indifferenti di fronte al male, nel mezzo delle zizzanie, ma di essere consapevoli di starci con la coscienza che queste ci accompagneranno sempre, ogni giorno, in ogni anno, per ogni epoca… fino alla fine del mondo.
Gesù ci dice che nessuno, nemmeno la Chiesa – e questo lo verifichiamo con dolore pressoché ogni giorno – è fatta di puri. Anzi ad un certo punto nella storia della Chiesa sorse un movimento di alcuni che volevano ritenersi “puri” e si chiamavano “Catari”, in Francia altrimenti detti “albigesi” dal loro centro Albi. Si definivano da sé dei buoni cristiani perché nutrivano una forte pretesa elitaria che arrivava a considerare la perfezione cristiana nella rinuncia al matrimonio e alla famiglia… ma la Chiesa non poté accettare una simile deformazione del Vangelo e il Concilio Lateranense III (1179) li scomunicò.
Non doveva il corpo ecclesiale estirpare quel male? Certo che sì, ma come poi questo sia avvenuto purtroppo ha fatto sì che discepoli zelanti siano arrivati a contraddire il Vangelo stesso uccidendo, bruciando, perseguitando… testimoniando in realtà che anche dentro la stessa compagine cristiana cresce la zizzania!
Perché questa è la condizione che non andrebbe mai dimenticata: tutto accade, secondo la parabola, nello stesso campo. Dentro me stesso c’è grano e zizzania, non esiste un campo di grano e uno di zizzania, non esiste un movimento di duri e puri e un altro di peccatori.
Padre Giovanni Vannucci diceva: il nostro cuore è un pugno di terra, seminato di buon seme e assediato da erbacce; una zolla di terra dove intrecciano le loro radici, talvolta inestricabili, il bene e il male. Per questo il campo è unico, non esiste una Chiesa buona e una Chiesa cattiva, esiste una Chiesa che è un campo unico, con grano e zizzania. Questa è la realtà.
Un giorno un anziano nativo americano raccontava al nipote questa storia: “Ci sono due lupi dentro di noi che si combattono ogni giorno. Uno è malvagio e superbo, vive nella paura, nel rancore, nella tristezza. Con orgoglio e si tormenta”.
Il bambino restò in silenzio, rapito dalle parole del nonno.
“L’altro invece è buono e vive nella gioia, nella speranza, nella pace e nell’amore perché è capace di umiltà e compassione”.
Con la voce ridotta a un sussurro il nonno si girò a guardare il nipote che aveva l’espressione concentrata di chi cerca di capire e chiese: “E dimmi nonno, quale lupo vince?”.
Il vecchio indiano fece un respiro profondo, poi chiuse gli occhi e rispose:
“Quello a cui dai più da mangiare”.
E noi a quale dei due lupi che ci abitano diamo da mangiare?
Oggi seminare zizzanie è un’arte: con le fake news il risultato è garantito. State pur certi che tutti ne parleranno. Anzi, tanto più se ne parla, tanto più si moltiplicano e sembra che il campo del mondo sia una sterminata distesa coltivata di zizzanie che si nutre di cattiverie.
Ma sappiamo che non è così. Esistono numerosi collaboratori di Dio, come li chiama Paolo, capaci di gettare nel campo del mondo semi come quello di senape, che a detta di Gesù è il più piccolo di tutti i semi. Perché cos’è un gesto di pazienza, cos’è il dono di un po’ del mio tempo, cos’è un atto di cortesia e di gentilezza… sono piccole cose di fronte all’arroganza del prepotente, sono piccoli semi di fronte al dilagare del male.
Proviamo a pensare a quanti piccoli semi possiamo gettare nel solco della vita quotidiana: certo stiamo sicuri che non verrà ripreso nessuna rassegna stampa, non ne parleranno i TG e tantomeno i social… ma è pur vero quello che Gesù dice: Quel piccolo seme diventa un albero tanto grande che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido nei suoi rami. Che è come dire che il regno ha in se un dinamismo che a noi sfugge, come l’effetto farfalla, dello scienziato Lorenz (1963) che appunto diceva: Davvero il battito d’ali di una farfalla può scatenare un uragano a migliaia di chilometri di distanza!
Si tratta di riconoscere il dinamismo del regno di Dio che a noi appare talvolta come il lievito: invisibile. Per questo finiamo per stancarci e per non perseverare nel coltivare il bene, perché vediamo il prevalere delle zizzanie. Ma Dio agisce nel cuore dell’uomo. Il lievito non siamo noi, il lievito è l’amore di Dio, tutt’al più noi potremmo essere quel “pane cotto” che il lievito ha già fatto fermentare per essere spezzato per il mondo (come si legge nel Martirio di san Policarpo 15,2).
Non siamo chiamati a fare gli sceriffi del Vangelo, i frettolosi guardiani della dottrina che vogliono fare giustizia e strappare le zizzanie degli altri. Ci pensa lui, il Signore a fermentare e a far crescere il bene nei modi che la sua pazienza sa inventare. A noi è chiesto di continuare a essere segni della pazienza del Padre, come ci insegna Paolo VI, anch’egli canonizzato oggi da papa Francesco, quando in un incontro con alcuni giovani guidati da La Pira, sindaco di Firenze, confidò loro: Io mi domando spesso che cosa diranno gli uomini del futuro della chiesa dei nostri tempi. Mi augurerei che potessero dire: era una Chiesa che soffriva ma che con tutte le sue forze amava l’uomo.
(1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43)