II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31
Domenica scorsa eravamo con Maria di Magdala all’ingresso del sepolcro di Gesù e le abbiamo riconosciuto una straordinaria capacità di amare il Maestro, al punto di essere qualificata come l’apostola di Cristo, la prima a incontrare il Risorto e a portare l’annuncio ai suoi.
Oggi incontriamo la figura emblematica di Tommaso del quale da dopo l’ultima cena non abbiamo avuto traccia: non l’abbiamo incontrato sotto la croce, non c’era nemmeno al momento della sepoltura e la domenica di Pasqua addirittura non era venuto a stare con i discepoli né con le donne nel Cenacolo.
Non solo, anche il suo atteggiamento è molto diverso da quello di Maria di Magdala. Tommaso si presenta con un modo di fare più razionale, potremmo dire più “scientifico”: Voglio proprio vedere i segni dei chiodi e toccare con mano la prova inconfutabile che Gesù era stato crocifisso. Che è come dire: non raccontatemi storie, non inventate cose strane, Gesù è morto. Punto.
Non è che Tommaso non creda in Dio, tutt’altro, non crede che Dio possa vincere la morte, anzi se Gesù era davvero figlio di Dio doveva evitarla. Questo stanno a significare le sue parole che suonano come una sfida: se non vedo i segni dei chiodi! Perché i segni dei chiodi sono proprio l’evidenza provata che è morto, che anche Gesù era uno di noi.
Quelli che per Tommaso dovevano essere i segni incontrovertibili dell’esecuzione di Gesù, otto giorni dopo la domenica di pasqua, vengono esibiti dal Cristo come segni trasfigurati, trasformati, segni che dicono la continuità tra il Gesù della storia che Tommaso ha imparato a conoscere e il Cristo risorto che nella fede, può tornare ad abbracciare.
Qui, noi, come Tommaso e come tutti i discepoli di ogni tempo, siamo chiamati a compiere un atto di fede, perché, come scriveva nelle sue Lettere di Nicodemo (1951) lo scrittore polacco Jan Dobraczynski (+1994): Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?
Tommaso, il cui nome in aramaico si dice Toma’ (in greco «Didimo», significa il “gemello”, il “doppio”. Tommaso è il nostro gemello, il nostro doppio perché in lui, come in ciascuno di noi, abita non tanto il credente e il non credente, perché appunto Tommaso crede in Dio, ma la discriminante è credere che in Gesù Dio abbia subito la violenza, la tortura, la morte. Perché se Dio è Dio dovrebbe evitare che queste cose accadano!
Le ferite di Gesù visibili dopo la risurrezione dicono che la risurrezione non è un’autosuggestione, un modo di guardare la croce come se fosse stata solo un brutto momento da dimenticare, un incubo dal quale ci si risveglia e poi si constata con sollievo che fortunatamente è stato soltanto un brutto sogno.
Il Cristo risorto portando ancora su di sé i segni della passione, non li cancella come nelle favole, ma ce li ricorda costantemente perché dicono che l’amore di Dio per noi che passa attraverso Gesù, va oltre la morte, non la evita, ma la attraversa dischiudendo un orizzonte altro.
Il fianco del Cristo, quel fianco che fu trafitto, da dove scaturì sangue ed acqua è la ferita d’amore di Dio da cui siamo nati, ed è la ferita che ci genera da cui fluisce la vita e lo Spirito.
Da lì nasce la fede di Maria di Magdala, la fede di Tommaso, la fede di Pietro. Il capo degli apostoli che avevamo visto piangere d’amarezza la sera del giovedì santo, incapace di accettare che Gesù si lasciasse consegnare ingiustamente alla croce, oggi la prima lettura ce lo presenta «pieno di Spirito Santo» in un contesto che è simile a quello che aveva subito lo stesso Cristo. Pietro e Giovanni sono appena stati arrestati dal servizio d’ordine del tempio perché annunciavano in Gesù la risurrezione dai morti (4,2) e per questo Anna e Caifa, i sommi sacerdoti, i capi del popolo e gli anziani organizzano subito un processo, l’ennesimo processo.
Eppure questa volta Pietro è pieno di Spirito santo. Cosa è successo? Lo spiega il libro degli Atti al v.13, che potremmo considerare come il versetto centrale della narrazione, dove si dice appunto che le autorità hanno visto la franchezza di Pietro e di Giovanni. Questo è il dono dello Spirito santo: la franchezza, in greco parresìa, cioè libertà e coraggio insieme, che non sono mai arroganza, né supponenza, ma vengono dalla consapevolezza che Gesù è all’opera, che Gesù è risorto!
I sommi sacerdoti e gli anziani, contrariamente a quanto pensavano di Gesù, guardano a Pietro e a Giovanni come a persone affatto pericolose perché erano semplici e senza istruzione, letteralmente a)gra/mmatoi¿ kaiì
i¹diw½tai «illetterati» e «idioti». Due qualifiche che vanno insieme, perché l’idiota in quanto illetterato nell’ellenismo era la persona senza cariche pubbliche, per cui Pietro e Giovanni sono considerati talmente grezzi e ignoranti che non avrebbero mai avuto un posto nelle istituzioni pubbliche!
Però, c’è ancora una cosa che dice il v.13 ed è il fatto che la parresìa di Pietro e di Giovanni stupisce le autorità che li riconoscono come quelli che erano stati con Gesù, che è una delle più definizioni più intense di chi sia il discepolo, uomo o donna, il discepolo è colui che è stato con Gesù. Anzi, qui abbiamo un imperfetto indicativo che indica l’azione di un momento che continua, per cui dovremmo tradurre: quelli che continuavano a stare con Gesù.
Ma le autorità non potevano comprendere questo, per loro Gesù era morto e i suoi discepoli non potevano continuare a stare con lui. Era chiaro invece per Pietro e per Giovanni che sperimentavano di continuare ad esserlo, nonostante tutto, nonostante la morte di Gesù, nonostante il rinnegamento, la paura e la loro poca fede perché Gesù li ha amati e continua ad amarli.
Gesù non rinfaccia i loro pur evidenti peccati: vergogna, tradimento, rinnegamento, paura… sono stati dei vigliacchi di per sé. Ma il Signore avvolge della sua tenerezza e del suo amore le ferite di quell’amicizia e quell’affetto che li avevano legati insieme, perché vede le cose dalla prospettiva veramente rivoluzionaria che è quella della risurrezione.
La vera rivoluzione per l’umanità non è nel sostituire un potere a un altro, un dominio a un altro dominio, una cultura che prevarichi un’altra cultura… ne abbiamo viste tante nella storia dell’umanità, ma nessuna è stata capace di liberarci finalmente dal bisogno della violenza, dell’odio, della prevaricazione.
Gesù risorto che si mostra con quelle ferite è la vera rivoluzione che ci libera. Perché se imparassimo a vederci e a guardarci, a vivere insieme e a rispettarci a partire dall’orizzonte della vita dopo la morte, sapremo dare importanza ai piccoli gesti che costruiscono giorno per giorno una convivenza umana degna di tale nome.
Invece chiusi come siamo sul nostro particolare, sui nostri meschini interessi di parte, di immagine, di potere e di dominio continuiamo a farci del male, a discriminarci per l’appartenenza a un paese, a un’etnia, per una diversità e a procurare ferite a quel corpo di Cristo che è il povero, il malato, il carcerato, il profugo, l’anziano solo, l’affamato, il perseguitato, la donna sfruttata, il bambino violato…
La vera rivoluzione è la Pasqua, la forza eversiva della storia è la risurrezione e forse per questo facciamo fatica a credere, non tanto perché sia un mistero che oltrepassa le nostre capacità di comprendere, ma perché nel momento in cui con Tommaso arriviamo a dire a Gesù Risorto: Mio Signore e mio Dio, poi le cose cambiano. La nostra etica è costretta a interrogarsi, il nostro modo di stare nel mondo e di affrontare le responsabilità non possono più prescindere da quello che la risurrezione significa!
Pietro ha preso coraggio, Paolo ha rivisto il suo modo di essere e di pensare, Tommaso ha trovato la pace, quella pace che Gesù risorto può donare, perché prendendo la vita dalla prospettiva della risurrezione, dal fatto che un giorno, attraversata l’esperienza della morte, anche noi staremo con le persone che ci hanno amato e che noi abbiamo amato come Gesù ci sta a dimostrare, davvero possiamo abitare al mondo con la fiducia e la pace che vengono da lui.
Ma per vivere così occorre davvero tuffarsi nell’oceano di Dio, buttarsi così come noi ci buttiamo nel mare sapendo che le acque si apriranno per accoglierci perché certe cose bisogna viverle prima per comprenderle poi.
Preghiamo insieme oggi perché, come ha fatto con Pietro e Giovanni, con Tommaso e Maria di Magdala, come è accaduto a questi nostri padri e madri della fede, il Signore guarisca anche i nostri cuori così che possiamo dire con parresìa, con libertà e coraggio: Tu sei il mio Signore e il mio Dio!
(At 4, 8-24; Col 2, 8-15; Gv 20, 19-31)