VII DOPO PENTECOSTE - Lc 13, 22-30
(Gs 4, 1-9; Lc 13, 22-30)
Quando Gesù ci chiede di entrare per la porta stretta non viene spontaneo collegare questo passare per la porta stretta al passaggio di Giosuè e delle tribù di Israele attraverso il fiume Giordano. Eppure sempre di passaggio si tratta. Giosuè ordina di mettere nel fiume dodici pietre portate da dodici persone, perché si possa passare sull’asciutto, e vorrebbe così imitare l’esodo del mar Rosso guidato da Mosè-
Gesù a sua volta chiede a chi lo segue di passare attraverso la porta stretta. Noi sappiamo da Giovanni che lui è la porta (10, 7-9), ma è una porta larga quanto la larghezza di una croce, e per questo è una porta stretta. Non ci poteva essere contrasto maggiore, anche perché quello che abbiamo ascoltato di Giosuè è solo l’inizio della sua attività che tutto sommato ci pare tranquilla, ma se avete la bontà di continuare la lettura del libro di Giosuè, ci imbattiamo ben presto in una vita piena di oscura e implacabile violenza… al servizio di Dio. La biografia di Giosuè è una lunga, esaltante avventura che però gela il sangue per la violenza che la attraversa.
Lungo il suo racconto veniamo trasportati da un campo di battaglia all’altro, da un’esecuzione a una impiccagione, da una punizione a una vendetta. Ci troviamo perduti tra città in rovina e cadaveri sfigurati… Appena attraversa il Giordano Giosuè incontra trentuno re che con i loro eserciti occupano la terra di Canaan: non ne sopravvisse nemmeno uno. Alcuni furono uccisi in battaglia, altri impiccati, a volte con una brutalità gratuita.
Mentre Mosè dovette attraversare innumerevoli tormenti e crisi, alcune causate da Dio e altre dal popolo, e il più delle volte da entrambi, per Giosuè tutto sembra più semplice. In guerra tutto è semplificato: che cos’è la guerra se non un vasto processo di semplificazione?
Ripercorrendo la conquista di Giosuè ascoltiamo nomi come Nablus, Hebron, Gerico… e tante altre località bibliche che sono ormai rientrate nella diplomazia internazionale. Chi può abitare a Hebron? Gli ebrei o i palestinesi?
Vedete le preoccupazioni di Giosuè sono le nostre, la sua angoscia è la nostra angoscia. Le domande di queste settimane sono quelle di allora: fin dove ci si può spingere quando si tratta di garantire la propria sicurezza, a quale prezzo si deve tutelare la propria sopravvivenza?
Giosuè deve aver passato notti insonni sulla riva orientale del Giordano. Il suo passato è il nostro presente. Ma come ha potuto versare tanto sangue e spargere tanta violenza? Giosuè vinse molte battaglie, ma la Bibbia non se ne vanta, a seguire il racconto sembra di leggervi una triste legge di necessità: doveva accadere così. Ma se ci accontentiamo di questa risposta, dovremo dire ancora oggi che anche nella striscia di Gaza deve andare ancora così? Che anche in Cisgiordania deve andare ancora così? Che in Iraq o in Siria deve andare ancora così?
Da questa prospettiva Giosuè è una figura tragica. I trionfi in battaglia non gli arrecarono nessuna felicità; al contrario lo resero più triste e più solo e lui morì tutto solo e dopo aver visto troppe sofferenze su troppi campi di battaglia, morì solo, completamente solo.
Racconta il Talmud che venne sepolto a nord della montagna Arrabbiata. Perché la montagna era arrabbiata? Perché Dio era offeso in quanto nessuno si era preoccupato di andare al funerale di Giosuè. Perché? Perché tutti erano troppo occupati. Uno era occupato al suo giardino, l’altro nella vigna, l’altro col suo bestiame… strano ma vero: Giosuè fu il capo di Israele in guerra, ma quando la guerra finì non ebbero più bisogno di lui.
Allora ci rendiamo conto che per noi leggere questo libro come parola di Dio, significa che il suo libro sulla guerra è un libro contro la guerra, quello di Giosuè è un racconto di sangue perché impariamo a resistere al sangue, perché da quando Caino uccise Abele, chiunque uccida, uccide sempre un fratello.
Scriveva il poeta e scrittore David Grossman all’indomani del tragico ritrovamento dei tre giovani ebrei uccisi: La speranza, il desiderio è che il dolore che la nazione prova in questo momento le faccia capire anche il dolore della parte opposta, che ogni vittima ha dei genitori, una famiglia, degli amici che lascia dietro di sé un vuoto terribile, che cambia la vita di tutti coloro che rimangono.
Parole semplici e disarmanti. «Disarmanti» appunto, per questo preghiamo e continuiamo a pregare perché si disarmino i cuori. Con quante lacrime si dovrà ancora irrigare l’aridità di quella terra perché si comprenda che la violenza ha ampiamente dimostrato nella storia che non riesce a generare sicurezza e tantomeno pace? Quanto sangue dev’essere ancora versato perché si comprenda che la vendetta è una spirale che può essere stroncata soltanto dal dialogo e dalla riconciliazione?
Il Dio d’Israele non è nemmeno lontano parente di quello in cui dice di credere il governo di quella nazione, oggi.
Allo stesso modo il Clemente e il Misericordioso invocato più volte al giorno dal musulmano osservante non può essere complice né di razzi lanciati su popolazioni inermi, né di alcuna di quelle forme di violenza che ad esempio vengono esercitate in Siria, in Iraq contro altri credenti. Quanta ipocrisia ci può essere nell’osservanza di un Ramadan fino al tramonto per organizzare alla sera il lancio di razzi? Quanta ipocrisia ci può essere nel piangere la preghiera al Muro occidentale di Gerusalemme e poi massacrare famiglie? Nessuno può farsi da scudo con la fede per offendere un altro essere umano.
Sarebbe davvero un atto di fedeltà assoluta al proprio Dio se le autorità religiose tanto ebraiche quanto islamiche urlassero parole di disarmo contro ogni forma di violenza senza distinzione di fazioni.
Ma è forse proprio questa la «porta stretta» di cui parla Gesù, quella porta da cui non passano tutti gli operatori di ingiustizia. Per quella porta ci sono passati Abramo, Isacco e Giacobbe, insieme a Sara, Rachele e Rebecca… e a tutti coloro che da ogni angolo della terra seguono il sentiero della giustizia di Dio, ma non gli operatori di ingiustizia.
E qual è la giustizia di Dio se non quella che vede nella famiglia umana una fraternità riconciliata? Non puoi nominare Dio, se non lavori per un’umanità più fraterna. Uno può anche dire di aver mangiato e bevuto nel tuo nome, di aver fatto delle cose religiose, ma se non vive della giustizia di Dio, Gesù non li riconosce.
Ed è questa la porta stretta, perché per poter costruire un’umanità più fraterna, ciascuno deve rinunciare a sé, deve smettere di pensare di avere la ragione e la verità da usare contro l’altro. Come ha fatto Gesù. La porta è stretta quanto il Vangelo. Ed è qui che noi continuamente attingiamo per conoscere sempre più intimamente Gesù e la sua coscienza, per seguirlo più da vicino.
Il nome di Gesù per noi deve riempirsi di sostanza. Se non facciamo confluire nella sua figura l’intero susseguirsi storico delle sue parole, dei fatti, degli eventi, delle scelte così come ce li trasmettono gli evangelisti, Gesù diventa un nome annacquato, vuoto. Diciamo di amarlo e di conoscerlo, ma di fatto abbiamo qualche idea generica su di lui e con le idee si giustificano tante cose, anche la violenza.
Preghiamo insieme perché l’Eterno ci doni di conformarci sempre più al Cristo. Perché, la nostra mente, il nostro cuore, la nostra psiche tutto noi possiamo conformare liberamente al suo amore.
Occorrono ancora «dodici pietre» perché si possa permettere alla storia umana di passare verso quella terra promessa che è il futuro di un’umanità riconciliata. Dodici per dire un nuovo esodo, non più attraverso il mar Rosso, nemmeno attraverso il Giordano, ma attraverso ciò di cui essi sono segno e anticipo, ovvero attraverso il Cristo.
È in lui, con lui e per lui che possiamo essere liberati dalla schiavitù che rende necessaria la violenza, liberi dalla schiavitù della falsa religione affinché impariamo a pronunciare parole «disarmanti», a tessere una rete di riconciliazione e di pace.