FESTA DELLA SANTA FAMIGLIA - Mt 2, 19-23


Devo confessarvi che, di anno in anno, le mie perplessità nei confronti di questa festa vanno accrescendosi. I motivi sono innumerevoli. Anzitutto sembra alimentare l’immaginazione che ci possa essere una famiglia ideale. In tempi come i nostri di frammentazione, di fragilità degli affetti e dei sentimenti, non so quanto possa essere di aiuto proporre una famiglia modello.

Ci sono tante storie quante sono le famiglie. Ci sono rapporti che durano meravigliosamente nel tempo, solidi come rocce; altri che hanno la consistenza delle farfalle: belle realtà che si esauriscono con il tramontare del sole. E poi ci sono situazioni che cambiano in continuazione, che oscillano come pendoli tra una condizione e l’altra.

Quindi di cosa parliamo? Quale modello proponiamo? E poi come si può pensare di proporre “questa” famiglia! Come mi diceva un giorno una mamma mentre parlavamo appunto delle famiglie e della famiglia di Gesù: “Hai un bel dire pG: Maria come figlio aveva il Figlio di Dio!”.

È vero sono tutte cose umanamente condivisibili, come è anche vero che il Vangelo non ci propone una famiglia modello, ma nemmeno un single modello e tanto meno un padre e o una madre modello di qualcuno.

Probabilmente avvertiamo il bisogno di riferirci a qualche esempio per sostenere la fatica di diventare noi stessi. Ma non possiamo fuggire dalla fatica di diventare noi stessi, se non vogliamo ridurci nella vita a recitare una parte che non ci compete. Lo diceva col suo sarcasmo Erasmo da Rotterdam: “Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico”.

Ecco prima che il direttore ci faccia lasciare la scena, ascoltiamo la parola di Gesù che non ci dà dei modelli, non ci fa indossare delle maschere, tantomeno se parliamo di famiglia, ma innesta nelle nostre vite e nelle nostre relazioni uno spirito altro che non nasce dall’idealità, ma da una spiritualità che vive dentro le complessità dell’esistenza.

Anzitutto non venitemi a dire che la famiglia di Nazareth se la passasse bene! La questione del concepimento, la precarietà delle condizioni in cui nasce il bambino, e poi le disavventure di questa giovane coppia di fronte a un potere soverchiante e crudele, che addirittura, come abbiamo sentito oggi, li costringe all’esilio in Egitto… altro che famiglia ideale!

Che è appunto quanto viviamo nelle nostre famiglie: tensioni, paure, preoccupazioni. Ed è anche la condizione delle famiglie che si mettono in mare sui barconi o che sono bloccate ai confini militarizzati dell’Europa.

Ora Matteo ci dice che Giuseppe che tra l’altro non è il padre biologico di Gesù, esercita la paternità in queste condizioni con un atteggiamento che non è scontato: perché padri non si nasce, magari uno può essere padre biologico, ma padri si diventa. E lui pur non essendo il padre biologico di Gesù, impara ad essergli padre.

Questa è la prima cosa che dobbiamo considerare, cioè ciascuno di noi al di là di quello che la vita gli ha riservato è innanzitutto un figlio, è stato affidato a qualcuno, proviene da una relazione importante che lo ha fatto crescere e che lo ha condizionato nel bene o nel male.

Fare i conti con questa relazione significa comprendere che un giorno quando ci viene data la responsabilità della vita di qualcuno, portiamo con noi innanzitutto l’esperienza che abbiamo fatto.

Sono convinto che il rapporto di paternità che Giuseppe aveva con Gesù ha talmente influenzato la sua vita fino al punto che il modo di parlare di Gesù e i suoi racconti sono pieni di riferimenti e di immagini prese proprio dall’immaginario paterno.

Gesù quando dice che Dio è Padre, lo può affermare grazie anche alla sua personale esperienza umana di paternità. Nel senso che Giuseppe ha fatto talmente tanto bene il padre al punto che Gesù trova nell’amore e nella paternità di quest’uomo il riferimento più bello da dare a Dio.

Potremmo dire che i figli di oggi che diventeranno i padri di domani, dovrebbero domandarsi quali padri hanno avuto e che padri vogliono diventare. Perché davanti ai problemi, alle tensioni, alle preoccupazioni agiamo e ci comportiamo come abbiamo imparato a casa, nella relazione con nostro padre e nostra madre.

In secondo luogo, la parola di Dio se prendiamo in considerazione anche la narrazione di Luca che segue più la prospettiva di Maria e che quindi integra quella di Matteo che come abbiamo sentito assume la visione dal punto di vista di Giuseppe, ci di dice una cosa molto profonda.

La presenza di Giuseppe e Maria, la presenza del padre e della madre è una presenza che permette a Gesù di diventare quello che doveva essere e a non indossare una delle tante maschere che molta gente intorno a lui aveva indossato.

Una delle caratteristiche più belle dell’amore, della paternità e della maternità, è appunto la libertà. L’amore genera sempre libertà, l’amore per essere tale non può diventare prigione, possesso ma fa fiorire l’altro.

Giuseppe e Maria ci mostrano la capacità di prendersi cura di Gesù senza mai volerlo manovrare, senza mai impossessarsene, senza mai volerlo distrarre da quella che è la sua missione. Un buon padre, una brava madre sono tali quando sanno fare un passo indietro al momento opportuno affinché il figlio possa emergere in tutta la sua bellezza, la sua unicità, le sue scelte.

Così Maria, e in particolare direi Giuseppe, perché di lui oltre queste pagine non sappiamo di più, ad un certo punto sa defilarsi dalla scena affinché Gesù possa realizzare la sua vita, la sua missione.

Ha tanto da insegnarci questo atteggiamento di Giuseppe: domandiamoci se siamo in grado di fare un passo indietro, di permettere all’altro, e soprattutto a chi ci è affidato, di trovare in noi un riferimento e mai un ostacolo, una dipendenza o un blocco.

Per contro sappiamo che i nostri giovani spesso hanno paura di decidersi, di scegliere, di uscire al largo… e quindi il compito dei genitori è ancor più complesso. Però un vero padre non ti dice che andrà sempre tutto bene, piuttosto ti mostra con la sua vita e i suoi comportamenti che se anche ti dovessi trovare nella situazione in cui le cose non vanno bene, tu sarai in grado di affrontare e di vivere con dignità anche quei momenti, anche quei fallimenti. Perché una persona matura la si riconosce non nelle vittorie, ma nel modo con cui sa vivere un fallimento. È proprio nell’esperienza della caduta e della debolezza che si riconosce il carattere di una persona.

Queste due sottolineature sono occasione per fare i conti con la nostra condizione di figli, di genitori, di educatori: ripensiamo alla nostra esperienza di paternità e di maternità, cosa e come ce la portiamo nel cuore e in secondo luogo ricordiamoci di educare alla libertà perché ciascuno possa fiorire nella sua personalità più vera.

La condizione per portare avanti queste due attenzioni è data anzitutto dal rispetto. Quanto poco rispetto c’è nelle nostre famiglie! Il marito, la moglie, i figli vengono vissuti come “proprietà”, da qui il moltiplicarsi di tanta violenza. Quante volte le attenzioni e i gesti di affetto sono dovuti e lo stupore e la gratitudine vengono banditi dai nostri discorsi. Recuperiamo il senso del mistero dell’altro, l’altro non ci è “dovuto” è sempre un “dono”.

(Mt 2, 19-23)