VI DI PASQUA - Gv 14, 15-21


(1Pt 3, 15-18;  Gv 14, 15-21)

 

Non vi lascio orfani, dice Gesù.

Penso che in ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, sia apparsa la fantasia: Ma se fossi stato contemporaneo di Gesù! oppure: Se avessi potuto incontrarlo! Sono pensieri e desideri umanamente legittimi perché abbiamo bisogno di sentire, di toccare, di vedere, ovvero di avere – oltre ad una conferma razionale e intellettuale della speranza evangelica – anche il conforto affettivo di una presenza.

Quando Gesù dice ai discepoli: Non vi lascio orfani! Risponde allo sguardo stordito dei suoi che lo sentono pronunciare parole di addio, gli sentono dire cose che forse si aspettavano, ma che non avrebbero mai voluto sentire, perché dicono chiaramente a cosa stia andando incontro lui, il Signore, il Maestro che hanno seguito per lungo tempo.

Non solo, ma anche perché questo che va annunciando contiene implicita un’ulteriore verità: E dopo che ne sarà di noi? Se lui se ne va, se lui viene tolto di mezzo, cosa facciamo noi? cosa ci succede?

La parola di Gesù è dunque una parola che risponde a un’inquietudine profonda, intima, risponde a una paura che egli stesso paragona all’esperienza del rimanere orfani, e quando questo succede nella nostra vita siamo costretti ad un cambiamento epocale.

Seguendo il corso naturale delle cose, nessuno di noi per quanto si possa dar da fare riesce ad impedire questa esperienza, questa dolorosa separazione e il distacco da coloro che ci hanno dato la vita. I genitori possono lasciare ai figli buoni ricordi, possono lasciare ricchi patrimoni, ma nulla possono contro la morte.

Cosa intende dire allora il Signore con questa promessa: non vi lascio orfani?

Penso anzitutto a due cose. La prima. Gesù dice: Io pregherò il Padre per voi. A noi che probabilmente siamo più preoccupati del fatto che dobbiamo pregare il Signore, che magari facciamo fatica ad avere un tempo per pregare, Gesù ci ricorda anzitutto che lui prega per noi. Mi sembra una promessa che dà grande consolazione: Gesù prega il Padre. Gesù intercede, si mette tra noi e Dio, facendosi garante della nostra vita, del nostro credere, Gesù porta al Padre la sua preoccupazione per noi, per ciò che dobbiamo affrontare nella vita.

Questa promessa di Gesù che prega per noi è fonte di pace perché ci immerge in una dimensione che dà la giusta proporzione a tutti i nostri pensieri e le nostre angosce: Gesù prega per noi il Padre, per cui abbiamo un grande amico presso l’Eterno che conosce il nostro cuore e che ci pensa.

E poi c’è una seconda cosa contenuta nella promessa di Gesù, infatti il Signore dice anche che la sua preghiera avrà un effetto preciso: il Padre vi manderà lo Spirito della verità, il “Paraclito” che rimarrà con voi per sempre. Paraclito è un participio passivo del verbo parakaleo che può avere anche il senso di consolare  (come diceva Isaia 40,1: Consolate, consolate il mio popolo …), ma letteralmente significa «chiamato presso qualcuno», in latino advocatus. Con questo titolo, Gesù indica ai discepoli che lo Spirito sarà con loro e che non saranno mai soli.

Osserviamo il linguaggio usato da Gesù. Per sette volte nei sette versetti di cui è composto il brano, Gesù ripete questo modo di esprimersi: Io nel Padre, voi in me, io in voi. Dentro, immersi, uniti, intimi. Gesù ribadisce che l’amore suo è passione di rimanere unito ai suoi. E questo ci conforta: che io sia amato dipende da Lui, non da me; l’uomo può anche dire di no a Dio, l’uomo può anche far di tutto per essere orfano di Dio, ma Dio non viene meno. Tu puoi negarlo, lui non potrà mai rinnegarti: non vi lascerò orfani. Non lo siete ora e non lo sarete mai, mai orfani, mai soli, mai separati!

E questa relazione filiale che resiste alla morte e che non ci lascia orfani, non è mai ripiegata su se stessa, non si riduce a sterile intimismo, ma, come dice Pietro, ci rende pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi… con dolcezza e rispetto.

Con dolcezza e rispetto perché la Parola di Cristo non si impone, non segue il rumore delle classifiche, non costringe … Ma si annuncia con quella dolcezza, dice Pietro, di cui lui stesso ha fatto esperienza con il Signore. La verità di Cristo va annunciata così, perché non dobbiamo dimenticare come lui ci ha amati nonostante i nostri ritardi, le nostre lentezze e i nostri tradimenti… la prima dolcezza e il primo rispetto sono quelli di Cristo per noi, per i nostri peccati. Con questa esperienza nel cuore impariamo a trattare tutti con dolcezza.

Ma anche con rispetto, dice Pietro: il rispetto dovuto all’altro, al diverso da noi, a chi la pensa in altro modo, perché non abbiamo bisogno di sentirci autenticamente cristiani nella misura in cui ci contrapponiamo agli altri, a chi non crede, a chi segue una religione diversa.  Qui tocchiamo un tema quanto mai attuale, perché anche oggi come allora siamo tentati di intolleranza…  gli intolleranti sono tali perché, incerti nella fede, pensano di darsi una identità sicura contrapponendosi agli altri con arroganza.

Nella storia quando la Chiesa ha voluto difendere con la forza la verità … ha creato l’inquisizione e allora è successo che essa stessa ha creato gli orfani di Dio e ha sottratto quello Spirito che suscita la relazione con l’Eterno, ma la figliolanza con l’Eterno viene dalla dolcezza e dal rispetto, mai dalla violenza e dall’arroganza.

«Mettere la verità prima della persona è l’essenza della bestemmia» scriveva Simone Weil. Tradiremmo la consegna di Gesù e ci troveremmo ad essere orfani dell’Eterno e a rendere orfani tanti altri se dopo aver ricevuto la comunione con Cristo, non fossimo capaci di dolcezza e di rispetto.