II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Mt 13, 47-52


audio 29 ott 2023

Sono tanti i pensieri difficili che in questi giorni si vanno rincorrendo. Pensieri difficili da pensare perché assediati dallo sconforto nei confronti della condizione e delle capacità che noi umani abbiamo di distruggere, di violare, di umiliare e schiacciare la vita.

Non potrebbe esserci scarto più evidente tra il nostro essere così capaci di guerra e di violenza e il celebrare l’amore di un Cristo che non smette mai di avere uno sguardo che abbraccia tutti. Lo sguardo di Gesù si estende dalle folle della Palestina fino a noi e continua a dire che il regno di Dio non è una setta per pochi adepti capaci di tutto per difendere se stessi, non è semplicemente un gruppo di amici con cui andare a bere una birra, ma neanche un’industria o un’impresa per fare del bene… il regno di Dio è come una rete gettata in mare che raccoglie ogni genere di pesci. Raccoglie tutti i generi di pesce. Tutti, ma proprio tutti.

Ecco lo scarto tra il nostro modo di pensare e il Vangelo: di fronte al male noi ci chiamiamo fuori, decidiamo di starcene in disparte perché siamo schierati dalla parte del bene. Gesù ci restituisce uno sguardo che non comprende solo i suoi, ma abbraccia tutti.

La setta distingue chi è dentro e chi è fuori da un sistema di appartenenza e di dipendenza: loro si credono il bene, gli altri sono il male. Analogamente l’impresa distingue chi lavora per la causa e chi no, c’è chi è con te e di là il tuo competitor… Il gruppo di amici separa chi sta con chi: chi è dentro e chi è fuori dal giro.

Gesù dice che il regno di Dio raccoglie tutti, lascia vivere tutti, i pesci buoni e quelli meno buoni, lascia crescere, dice in un’altra parabola, il grano e la zizzania. Perché la zizzania ci abita. Non chiamiamoci fuori dalle violenze e dalle guerre, guardiamoci dentro e riconosciamo che la guerra ci abita, la guerra è una costante della dimensione umana. Troppo umana (cf. Giacomo 4,1-2).

La guerra sia che si manifesti con le bombe, con le parole o con le decisioni a tavolino, è una pulsione primaria e ambivalente della nostra specie, pulsione che coabita e coesiste con le altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Già la mitologia intuiva che Ares e Afrodite, il dio della guerra e la dea dell’amore fossero inseparabili, avvolti in una rete dalle maglie d’oro. Ogni popolo, ogni nazione ha da raccontare la propria Iliade, la propria guerra vicina e lontana al tempo stesso, eroica e impenetrabile come il mondo di Omero, anche se le armi diventano ‘giocattolo’ e le bombe ‘intelligenti’.

La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipa del cosmo. È un’opera umana e un orrore inumano. Ne abbiamo esempi ogni giorno e impariamo a riconoscerla dentro di noi dal bambino che ci gioca con altri bambini, all’adulto che quando guida si sente in guerra con il mondo, dall’industria di ricerca e di pensiero che produce armi fino a chi le scarica sui civili.

Il rischio che non vorrei correre è quello di offrire a questa condizione complessa una risposta banalmente religiosa, che scivola nell’ipocrisia. Non è rivestendoci di apparente bontà, non è ergendoci a giudici di pace che distribuiscono facili sentenze che cambieremo il corso delle cose, anzi non faremmo altro che alimentare e rafforzare questa pulsione.

Credo che la posizione assunta da Gesù sia ancora da noi non del tutto recepita e accolta. Il vangelo deve ancora essere realizzato. Quando il Signore afferma che il regno di Dio è come una rete che raccoglie tutti i generi di pesci, dice una cosa che ancora non c’è. Il verbo raccogliere (in greco sunago) che significa mettere insieme, ‘raccogliere’ appunto quando si tratta di cose e radunare, riunire quando si tratta di persone, va in direzione ostinata a contraria alla nostra che invece punta sempre a dividere e a separare amici e nemici. L’agire di Dio è raccogliere non disperdere o separare, ma riunire.

Riunire, dice Gesù, ogni genere di pesci, vale a dire tutti i generi di pesci, tutti, perché tutti abbiamo bisogno di essere liberati da questa pulsione di guerra e di violenza. Tant’è che lui dà la sua vita per tutti. Non solo per i discepoli o per chi crede in lui, ma anche per chi lo ha criticato, condannato, venduto e crocifisso.

«È sulla croce che Gesù ha vinto – scrive Pierbattista Pizzaballa, vescovo di Gerusalemme, il 24 ottobre, facendosi voce di Vangelo proprio lì nel cuore della violenza e della guerra -. Non con le armi, non con il potere politico, non con grandi mezzi, né imponendosi. La pace di cui parla non ha nulla a che fare con la vittoria sull’altro. Ha vinto il mondo, amandolo. È vero che sulla croce inizia una nuova realtà e un nuovo ordine, quello di chi dona la vita per amore. E con la Risurrezione e con il dono dello Spirito, quella realtà e quell’ordine appartengono ai suoi discepoli. A noi».

Vogliamo, in un mondo che ama la guerra, essere parte di questo nuovo ordine inaugurato da Cristo. Ma ci vuole coraggio, il coraggio di chiedere giustizia senza spargere odio. Il coraggio di non chiedere vendetta e di rifiutare l’oppressione per domandare misericordia.

Ci vuole coraggio, anche tra di noi, per mantenere l’unità e sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni. È un coraggio da chiedere a Dio. Vogliamo essere vittoriosi sul mondo, assumendo su di noi quella stessa Croce, che è anche nostra, fatta di dolore e di amore, di verità e di paura, di ingiustizia e di dono, di grido e di perdono. Non ho ancora incontrato una risposta più credibile capace di andare oltre il terribile amore per la guerra, se non quella di Cristo.

(Mt, 13,47-52)