DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE (29 agosto) - Mt 10, 28-42


Abbiamo ascoltato l’ultima parte del cap.10 di Matteo di cui abbiamo letto alcuni versetti già domenica scorsa, quando ci siamo detti che queste parole descrivono non tanto ciò che dobbiamo fare noi, perché i missionari oggi sono coloro che arrivano sulle nostre coste, che irrompono nella nostra civiltà pigra e opulenta, per ridestarci alla profezia di Dio.

Ebbene oggi proprio nell’ultima parte, dal v. 40 incontriamo cinque proposizioni che descrivono l’atteggiamento di chi riceve questi missionari e, casomai uno volesse far finta di non capire, per cinque volte Gesù ricorre al verbo «accogliere».

Un verbo importante ma non solo perché esprime il buon cuore o una certa generosità, ma soprattutto perché per Gesù accogliere l’altro è un dono, prima ancora che un impegno. L’altro – qualsiasi sia la sua condizione sociale, religiosa, economica e politica – diventa per chi lo accoglie un «profeta», «un giusto» e un «piccolo».

Tre categorie non esclusive, come vorrebbe qualcuno che bestemmia dicendo: «Accogliamo solo i cristiani»! Gesù non pone dei criteri di religione o di cittadinanza per accogliere, non definisce dei limiti, delle regole… anzi, afferma che quando tu accogli l’altro, l’altro è appunto un triplice dono.

Anzitutto, in che senso l’altro che accogli diventa un profeta per noi? Nel senso che rivela a noi stessi, alla nostra coscienza così distratta, cosa conta davvero nella vita. E per quanto ci si impegni a costruire muri, barriere e filo spinato per difendersi e per avere voti… l’altro, il povero, il profugo, il migrante è sempre lì a rivelarci con la crudezza della sua condizione che per noi le cose contano più degli esseri umani, rivela la nostra meschinità e, in definitiva, rivela la nostra paura!

Una donna di Lampedusa ha detto a una intervistatrice: «Noi tutti qui abbiamo un maglione a testa, non di più. Gli altri li abbiamo dati a quei poveri ragazzi, perché dall’altra parte del mare le loro madri avrebbero fatto lo stesso con i nostri figli».

Il migrante è un profeta per noi perché chi viaggia in mare sa che non ci sono linee nell’acqua, che ogni onda porta con sé un confine da dissolvere, che nessun limite merita più rispetto di una vita umana.

Non solo, quando accogli l’altro, questi si rivela come un giusto per te, dice Gesù. Nel senso che non sappiamo nulla della sua fedina penale, ma l’altro nella sua condizione itinerante, povera, insicura rivela l’ingiustizia che governa il mondo. Il sistema d’inequità, come dice spesso papa Francesco, quell’inequità che ci fa sentire proprietari del mondo, possessori dei beni, così che ci autorizza a sfruttare la terra e le sue risorse non per condividere, ma per arricchirci e per questa mentalità siamo disposti a combattere… questa è la radicale ingiustizia che l’altro, il povero denuncia con la sua stessa presenza. La terra è di Dio, ed è affidata agli uomini perché la custodiscano e ne condividano i frutti, non perché ne diventiamo i padroni.

Infine, accogliere l’altro dice Gesù non significa fare grandi cose, l’altro che ci viene incontro si rivela a noi come un piccolo – e non semplicemente un piccolo in senso di età -, ma lett. un micro, un’unità di misura minima di fronte ai grandi fenomeni, ai grandi imperi, alle grandi imprese… Che cos’è un essere umano dinnanzi ai grandi capitali della finanza e dell’economia, agli interessi delle grandi imprese?

Il Vangelo in un contesto di globalizzazione, in un momento in cui contano i grandi movimenti e fenomeni globali, ci ricorda che un gesto di accoglienza, un’ospitalità amorosa basta per avviare un corso diverso delle cose. Eppure proprio le cose semplici sono le più difficili: ormai siamo abili a costruire leggi che sono a fondamento dei muri che si vanno costruendo. Poco ci manca ormai che ci inventiamo delle leggi anche per dare un bicchiere d’acqua!

Sono sempre più gli uomini pronti a erigere un muro che a collegare due sponde! Se vogliamo immaginare un futuro, non sarà la paura a farcelo sognare, ma l’impegno a costruire ponti. Avete presente quei ponti di corda nelle vallate nepalesi, spesso a picco sui fiumi? Gracili intrecci di corde ondeggianti sospesi tra terra e cielo. Che grande cosa sono quei ponti sospesi!

Ogni piccolo gesto d’amore ormai è un atto di coraggio, come un ponte sospeso sull’indifferenza e l’eslcusione. Piuttosto che una cultura della paura e della discriminazione, più che di respingimenti riempiamo le nostre giornate di piccoli ponti, di piccoli gesti d’amore… perché, dice Gesù, anche un bicchiere d’acqua dato con amore serve alla costruzione di un’umanità diversa (che è poi il senso ultimo della missione di Gesù e  del cristiano).

Quando si vociferava di un possibile conferimento del premio Nobel per la pace all’Isola di Lampedusa, non mancò nell’isola chi indignato confessò che loro quel premio non lo volevano proprio.

«Se ci danno il Nobel vuol dire che quello che noi facciamo, accogliere, è eccezionale e che è normale invece respingere o ignorare. Quello che gli isolani fanno – dividere cibo, vestiti, sorrisi e preghiere con le creature che il mare consegna – è normale. Dall’altra sponda, altre madri e altri padri farebbero la stessa cosa con noi.

Se si dice che l’accoglienza che l’isola offre è eroica o eccezionale state semplicemente ammettendo che invece l’indifferenza o, peggio, il rifiuto sono normali. Facciamo così, suggerì qualcuno: non date il Nobel a noi che “normalmente” diamo accoglienza, date l’Ignobel a loro, a quelli che l’accoglienza continuano a negarla».

Magari il conferimento dell’Ignobel servirebbe a risvegliare il sentimento della vergogna e quella vergogna ci aiuterebbe a cancellare alcune norme infami, come quella che ha introdotto il cosiddetto reato di clandestinità.

Dovremmo dire una parola anche sulle cinque proposizioni che iniziano dal v. 37: Chi ama padre e madre più di me… chi ama figlio o figlia più di me… chi non prende la propria croce… chi avrà tenuto per sé la propria vita… chi avrà perduto la propria vita.

Provate a leggere queste parole a un mafioso! Non è proprio qui, in questi legami familistici che si radica l’incompatibilità della fede col quel sistema di cui invece abbiamo avuto un triste spettacolo in questi giorni? Sappiamo che le mafie non hanno mai mancato di ostentare una religiosità di facciata, come una «foglia di fico» delle loro imprese criminali.

Il sacramento mafioso è l’utilizzo del rituale religioso per avere un’investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994 nella sua chiesa, mentre si accingeva a celebrare l’eucaristia ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.

Una volta di più, e a maggior ragione dopo la scomunica di Papa Francesco dei mafiosi e dei loro complici, è compito della Chiesa denunciare e ribadire che non può esserci compatibilità fra Vangelo e ogni sistema mafioso.

Perdersi per Gesù è un atto di coraggio che impedisce alla fede di ridursi a religione civile con tutte le ambiguità che porta con sé. Significa anche perdere se stessi e fidarsi fino in fondo di lui che ci viene incontro nell’altro come piccolo, profeta e giusto, affinché impariamo a riconoscerlo come criterio decisivo delle nostre azioni e dei nostri pensieri.