I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Mt 28, 16-20


audio 23 ott 2022

Ma noi non facciamo più cristiani! Questa è la prima reazione alle parole di Gesù ed è la costatazione dalla quale con molta onestà dobbiamo e vogliamo iniziare. A fronte delle parole di Gesù che consegna ai suoi amici il Vangelo affinché facciano a loro volta discepoli, noi oggi misuriamo uno scarto doloroso.

Gli anni di catechismo non danno più il risultato atteso e sperato. Al loro compimento, i ragazzi e le ragazze, abbandonano, se ne vanno semplicemente, senza sbattere la porta, senza contestare nulla, senza avanzare una qualche pretesa. Quando come parroco celebravo le prime comunioni e le cresime, quel clima di festa e di gioia, era accompagnato da un retrogusto piuttosto amaro. Mi rendevo sempre più conto che il sacramento della confermazione non confermava proprio un bel nulla.

Le famiglie davano il meglio di sé in vestiti, ricevimenti e regali… ma Gesù e il suo Vangelo erano subito dimenticati.

Non si tratta qui di colpevolizzare o di criminalizzare qualcuno. Se vogliamo essere sinceri e veri, se vogliamo una chiesa di giovani e non solo per i giovani, ma soprattutto se vogliamo essere fedeli al mandato di Gesù dobbiamo interrogarci seriamente e cogliere l’obsolescenza di una mentalità pastorale che viene ancora pervicacemente messa in atto, ma che non ottiene ciò per cui è stata pensata, vale a dire la possibilità di fare nascere al mondo nuove cristiane, nuovi cristiani.

Dico pervicacemente perché continuiamo a credere che facendo le cose di sempre, prima o poi, magari quest’anno o forse il prossimo, si otterranno risultati differenti. In realtà le cose di ‘sempre’, vengono da un preciso contesto sociale, culturale e umano che si è consolidato per qualche secolo e che ora è semplicemente venuto meno. Dobbiamo prenderne atto.

Papa Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium al n. 27 dice molto chiaramente che ogni cosa della pastorale concreta deve essere sottoposto a revisione e a conversione. È così. A un cambiamento antropologico dalla portata epocale, quale quello che stiamo vivendo, vale a dire non una semplice epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca, non potrà che corrispondere un cambiamento di mentalità pastorale altrettanto epocale.

Siamo una chiesa stanza e una chiesa che non si smuove. Siamo una chiesa che rischia di ammalarsi di quella cattiva stanchezza che ci prende quando non si ha il coraggio di prendere le distanze da certi automatismi e meccanismi divenuti abitudinari, di cambiare prospettiva, di porre fine alla follia di credere di poter ottenere risultati diversi, facendo le cose di sempre. Quel che però è più grave è che una tale chiesa manca il suo obiettivo specifico: quello di fare nuovi cristiani!

Papa Giovanni XXIII rispondeva a coloro che si opponevano al Concilio che non si tratta di cambiare il messaggio evangelico, il Vangelo è Gesù e quello rimane, piuttosto siamo noi che cambiamo e che ora comprendiamo di più ora di meno, ora in un modo ora in altro.

Anziché indugiare vanamente al lamento della gloria perduta – se mai c’è stata un’epoca gloriosa per il cristianesimo – immaginiamo un modo nuovo e radicale dell’essere e vivere da cristiani.

Nel vangelo di oggi, Matteo ci dà una prima indicazione preziosa da prendere in considerazione, quando proprio all’inizio al v.16 scrive che gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.

Erano a Gerusalemme per la pasqua e la pentecoste… perché tornare al nord, al lago, perché tornare in Galilea? Per loro che avevano fatto tutto il percorso con Gesù ed erano stati dietro a lui fino alla croce e alla risurrezione… cosa significava ricominciare da lì, da dove tutto era iniziato?

È un po’ come per la nostra vicenda personale: è importante e necessario tornare alle sorgenti, all’inizio, riconsiderare il cammino percorso sia di vita, di amore, anche professionale… per ricordare lo slancio, la motivazione e il cammino fatto. Non si tratta di ripetere le stesse cose, ma di saper ricominciare.

Tornare in Galilea significa, anzitutto, ricominciare. Per i discepoli è ritornare nel luogo dove per la prima volta il Signore li ha cercati e li ha chiamati a seguirlo. È il luogo del primo incontro e il luogo del primo amore. Da quel momento, lasciate le reti, essi hanno seguito Gesù, per ascoltare la sua parola e assistere ai segni che compiva.

Anche se, dobbiamo ricordarlo, pur stando sempre con Lui, non lo hanno compreso fino in fondo, spesso hanno frainteso le sue parole e davanti alla croce sono scappati, lasciandolo solo.

Malgrado questo fallimento, il Signore Risorto ancora una volta, li precede in Galilea; li precede, cioè sta davanti a loro. Li chiama e li richiama a seguirlo, senza mai stancarsi. Il Risorto sta dicendo loro: “Ripartiamo da dove abbiamo iniziato. Ricominciamo”. In questa Galilea impariamo lo stupore dell’amore infinito del Signore, che traccia sentieri nuovi dentro le strade delle nostre sconfitte. E così è il Signore: traccia sentieri nuovi dentro le strade delle nostre sconfitte.

Se c’è stato un primo incontro, allora sarà possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore – ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore – anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova.

Mi piace pensare così quel ‘potere’ che Gesù riconosce per sé e che condivide con i suoi discepoli: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate e fate discepoli tutti i popoli. Il potere nella vita di Gesù è un verbo più che un sostantivo, come invece facilmente lo intendiamo noi. È il poter cambiare, poter rigenerare, poter ricominciare. E poi poter battezzare, ovvero immergere in Dio Padre, Figlio e Spirito.

Oggi il problema strutturale della chiesa è proprio il potere. C’è un rapporto diretto tra potere e amore. La seduzione del potere nasce da un grave deficit di amore. L’obesità del potere non è estranea all’anoressia dell’amore. Il potere – verbo – di Gesù si è misurato con il potere – sostantivo – di chi non conosceva l’amore e vivendo ubriaco di potere lo ha condannato a morte, con la presunzione di agire in nome e per conto di Dio.

Da sempre l’istituzione vive di potere e non di amore. Anzi ha paura dell’amore. A quel punto la persona non vale più per quella che è, anzi in nome del potere ideologico, politico, religioso che sia, viene ridotta a essere subalterna alle logiche e agli interessi che governano il potere.

Se non facciamo più cristiani, è anche perché abbiamo disinnescato il potere dell’amore evangelico proprio con l’elefantiasi dell’istituzione ecclesiale. Come chiesa sembra abbiamo un corpo sgraziato: una testa enorme, grande e un organismo sproporzionatamente piccolo.

Oggi sono pochi i giovani che pensano di andare in chiesa per incontrarsi con Gesù e per ricevere da lui un orientamento, una parola decisiva per la propria esistenza… e forse è anche perché noi non lasciamo emergere nella vita ordinaria della chiesa tutto ciò che può permettere e favorire il riconoscimento di quest’ultima quale luogo in cui ci si incontra essenzialmente con Gesù e quindi un luogo in cui uno si può sentire concretamente amato, accolto e accompagnato.

Torniamo al primo amore, torniamo alla semplicità della sequela di Cristo e con una vera gioia annunciamo quello che a nostra volta abbiamo ricevuto.

(Mt 28, 16-20)