IV DI AVVENTO - Mc 11, 1-11


Ci sono due immagini che possono guidarci nella celebrazione di oggi. La prima è quella del serpente che nel linguaggio biblico è condannato a strisciare sul suo ventre, il serpente striscia per terra, è incapace di tenere lo sguardo sollevato (Gen 3,9-15.20).

L’altra immagine è quella evocata da Paolo che nel descrivere il destino dell’uomo afferma come Dio ci voglia santi e immacolati «di fronte» a lui nell’amore (Ef 1,3-12). Quel di fronte a lui è reso poi in maniera del tutto evidente da Maria che, come suggerisce Luca, sta libera e in ascolto davanti all’angelo di Dio, di fronte a lui in un dialogo intenso che segna la storia del mondo (Lc 1, 26-28).

Ecco in queste due immagini ci siamo anche noi: possiamo essere come il serpente che non può fare altro che strisciare su stesso, incapace di alzare lo sguardo, anzi insidia con l’inganno, inocula il veleno perché il male è così non è quasi mai diretto, è subdolo, arriva alle spalle, non mostra mai il suo vero volto. Ogni volta che anche noi strisciamo nella tristezza o nella disperazione per il male compiuto o subìto, strisciamo su noi stessi.

L’atteggiamento di Maria è l’atteggiamento di chi sta davanti a Dio nell’amore. Questo è il nostro posto. La parola dell’angelo detta a Maria, è rivolta a ciascuno di noi e ci restituisce il nostro modo più vero di essere, stare davanti a Dio nell’amore: «Io sono con te».

Ed è proprio per questo che oggi celebriamo l’eucaristia, viviamo un atteggiamento di riconoscenza, di gratitudine, di ringraziamento, o meglio ancora per dirla con Paolo, di benedizione: Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.

Per Paolo non sono affatto parole scontate, né ovvie, perché l’Apostolo le pronuncia e benedice l’Eterno mentre è agli arresti domiciliari a Roma! Eppure dice: benediciamo Dio perché in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nell’amore.

L’Apostolo nella sua formazione ebraica e quindi biblica ha imparato che il primo modo di pregare è benedire, ovvero dire bene dell’Eterno, ringraziarlo, lodarlo, anche se ha subìto il naufragio a Malta e adesso si trova ad essere prigioniero! La preghiera di benedizione nasce da un cuore che guarda la vita, le cose, le persone con uno sguardo ampio, non semplicemente concentrato su quello che deve fare adesso o domani, ma con uno sguardo che, distogliendo la lente d’ingrandimento sul particolare, è in grado di vedere il disegno di Dio che comunque sa trarre il bene per coloro che lo amano, per coloro che si fidano di lui.

Non solo Paolo benedice Dio per la propria condizione, ma coinvolge anche ciascuno di noi in questo inno di benedizione perché anche a noi ricorda che siamo fatti per essere santi e immacolati di fronte a lui nell’amore.

Ci sembrano parole d’altri tempi. L’essere santi e immacolati appartiene a un linguaggio da cui prendiamo le distanze perché rimanda a un modo di vivere disincarnato, inumano. Chi crede di essere santo e immacolato in genere è pericoloso, lo consideriamo un fanatico e forsanche un ipocrita.

Ma se noi smettessimo di considerare l’essere senza macchia come la condizione di uno stato primitivo e appartenente al nostro passato, quasi fosse un bene perduto con la nostra infanzia, e lo considerassimo come a una promessa che il Signore ha per noi?

L’Eterno, mandandoci Gesù, ci indica la strada per non continuare a strisciare nella nostra vita, per non essere costretti pancia a terra ad essere schiavi dello schifo che ammorba il mondo: corruzione, violenza, vizio, cattiverie… Ma in Cristo l’Eterno ci viene a dire che siamo al mondo per diventare santi e immacolati nell’amore, per fare della nostra vita un’opera d’arte, un capolavoro.

Non nasciamo immacolati, ma tali ci rende Dio. Non nasciamo santi, ma vivendo il Vangelo tali ci fa diventare Cristo. E questo avviene non senza un grande lavoro di discernimento su di noi, di conversione continua del nostro modo di pensare e di essere… Proprio perché ogni opera d’arte ha bisogno di tempo per essere modellata e plasmata per diventare un capolavoro.

Racconta un rabbino di un’università famosa che un giorno venne da lui un importante uomo d’affari, che voleva iscrivere suo figlio da lui. Quando il rabbino cominciò a leggere dettagliatamente il programma di studi, il padre disse: «Mio figlio dovrà fare tutti questi esami. Non si può in qualche modo accorciare? Lui vuole finire in fretta, e anch’io voglio che entri il prima possibile nel mondo degli affari. È lì che si fa la vera esperienza». «Certamente!» rispose il rabbino «Possiamo fare tutto, dipende da cosa suo figlio vuole diventare. Quando Dio vuole creare una quercia ci mette cinquant’anni, ma ci mette solo due mesi a creare una zucca».

Cosa c’entra questo con la festa dell’Immacolata concezione di Maria? La festa di oggi ci ricorda che Dio non ci ha fatti per essere zucche o, per dirla con l’immagine della prima lettura, non siamo destinati a strisciare pancia a terra lungo la nostra vita, ma per siamo fatti per stare davanti a lui nell’amore. Maria è immagine e icona di quello che Dio ha in mente per ciascuno di noi. Maria in questo è immagine della Chiesa tutta. Per questo il beato Paolo VI cinquant’anni fa, nel novembre 1964, al termine della terza sessione del Concilio, si rivolse a Maria chiamandola «Madre della Chiesa». Perché Maria di Nazaret, pur completamente abbandonata alla volontà del Signore, non è da intendersi solo come donna purissima, angelicata e verginale, ma anche come «donna forte che conobbe povertà e sofferenza, fuga ed esilio» (Marialis cultus, 1974).

Ed è questa la condizione della chiesa e di ciascuno di noi chiamati a stare davanti a lui nell’amore.