ASCENSIONE DEL SIGNORE - Mt 28, 16-20


(At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20)

L’Ascensione è una festa “difficile”. Viene da domandarsi perché si faccia festa per uno che parte. La festa è per uno che ci viene a trovare, che ci viene incontro e non per uno che se ne va e che sembra sottrarsi allo sguardo!

È una festa difficile anzitutto per i discepoli. Come avranno vissuto questo distacco? Cosa ha significato per loro?

Le letture che abbiamo ascoltato e che sono per noi Parola di Dio, in qualche modo ce lo dicono. Infatti succede ai discepoli quello che succede a noi dopo una lunga camminata e arriviamo in cima al monte: gli occhi cercano i luoghi noti, i paesi conosciuti … tutto però rivisto con uno sguardo diverso. Non ricordiamo più la fatica, i sentieri non sono più polverosi, le case sono tutte simili …. Si perdono i particolari per una visione essenziale delle cose, una visione d’insieme.

 

Ecco mi viene da dire che i discepoli, pur consapevoli che l’esperienza storica di Gesù si conclude e quindi la sua ascensione è in un certo senso un distacco e una separazione, tuttavia nel disegno dell’Eterno questo distacco è un mistero di apertura.

Perché in realtà, il corpo di Gesù nel suo manifestarsi nella storia poteva essere anche un limite: infatti solo pochi poterono vederlo e toccarlo, pochi poterono udire la sua voce ed essere chiamati per nome, poche città hanno potuto essere attraversate da lui…

Se il Signore prima viveva con “quei” discepoli, camminava davanti a loro, nel mistero del risurrezione, ora invece è sempre con tutti i discepoli di ogni tempo, come egli stesso conferma a conclusione del vangelo di Matteo: io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo!

Dunque con l’ascensione inizia la corsa del Vangelo dalla Palestina al villaggio più lontano sulla faccia della terra, dall’incontro nella vita di alcuni pescatori alle infinite storie di uomini e di donne che da allora cercano, domandano, gridano la loro sete di Dio.

Davvero l’ascensione è una separazione, ma proprio per questo è una festa: la festa della possibilità di una comunione estesa a tutti gli uomini e le donne di ogni tempo. E questo è una prima nota di paradossalità di questa pagina evangelica.

E allora ci domandiamo come questa comunione sia possibile per noi? Quali sono i criteri, i riferimenti che ci permettono di essere certi di accogliere questa continuità col Cristo e perché non sia una semplice suggestione?

Nella pagina di oggi notiamo anzitutto come l’appuntamento che Gesù fissa con i suoi sia in Galilea sul monte che aveva loro indicato.

Per tutta la narrazione del vangelo Matteo ci ha insegnato che il monte è il luogo dell’insegnamento (Beatitudini), è il luogo della preghiera (sul monte Gesù si ritira anche di notte a pregare), è il luogo della tentazione e della trasfigurazione… ed è significativo appunto che il Risorto fissi un appuntamento, anzi l’appuntamento ultimo ai suoi proprio qui, come a dire che ogni discepolo a sua volta deve come ricominciare da capo, deve ripartire dalla Galilea delle genti, crocevia dei popoli.

La conclusione del Vangelo segna un ritorno all’inizio: a ognuno di noi è data la possibilità di percorrere l’itinerario dietro al Signore dalla Galilea, attraverso la Samaria fino a Gerusalemme, fino alla passione e morte e risurrezione.

La vicenda di Gesù si costituisce come paradigma della vicenda di ogni discepolo.

Ecco, sembra dirci Matteo: tornando al Padre, cosa lascia Gesù sulla terra?

Una ricca eredità? un patrimonio di terre e di case? Di istituzioni, di denaro o di pensiero raccolto in qualche biblioteca?

Non lascia quasi nulla, se non un gruppetto di uomini impauriti e confusi e un piccolo nucleo di donne coraggiose, insomma dei discepoli ma che, come onestamente riconosce Matteo, ancora dubitano.

Gesù se ne va con un atto di enorme fiducia nei suoi, a quelle mani così inaffidabili, come ai nostri cuori così incerti, il Signore consegna il mandato: andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli e insegnando ad osservare tutto ciò che vi ho comandato.

Gesù se ne va con un atto di enorme fiducia nell’uomo. Ha fiducia in me, più di quanta ne abbia io stesso. Sa che riusciremo a essere lievito e forse perfino fuoco!

L’assenza fisica di Gesù dal mondo inaugura dunque il tempo della nostra responsabilità.

È questo l’altro carattere di paradossalità del mistero che oggi celebriamo: mentre, per un verso, la scenografia di Gesù che sale al Padre utilizza gli schemi espressivi dell’antica religiosità, il messaggio proprio di questa scenografia è del tutto contrario a ogni mito e a ogni superstizione.

Nel giorno in cui il Figlio dell’uomo ha superato il crinale che separa il tempo dall’eternità, ci chiede non di guardare in alto.

Il nostro compito è di guardare la vita che facciamo, il mondo in cui siamo, perché è in questo spazio che si consuma il nostro impegno con Dio.

Il giorno dell’Ascensione non è un giorno in cui le alienazioni religiose vengono legittimate, non è il giorno della chiusura nell’intimismo spirituale come a voler trattenere Gesù nel più intimo del nostro intimo … ma è il giorno in cui l’uomo viene restituito alla sua responsabilità nella storia. Infatti Gesù comanda ai suoi di muoversi: andate e fate discepoli tutti  i popoli battezzando e insegnando.

Questa è la nostra missione di discepoli ancora oggi.

L’ascensione è la festa di Gesù che si siede alla destra del Padre, come dice Paolo, ma proprio questo “sedersi” del Cristo alla destra del Padre ci chiede di “andare”, rimanda alla nostra responsabilità perché il suo Vangelo continua a vivere in tutti coloro che aprono il cuore alla sua parola, in coloro che lo riconoscono nel povero, in coloro che non smettono di credere la mitezza, la pace, la non violenza, la condivisione sono i germi del regno di Dio.

Il Vangelo non ha bisogno di discepoli seduti: seduti sulla nostalgia del passato, seduti nell’intimismo sterile o ancora seduti nel ritualismo e nel formalismo religioso, paralizzati dalla paura e dall’angoscia del futuro.

Don Milani diceva che è inutile avere le mani pulite … per tenersele in tasca!

Ecco la nostra missione è ancorata a quelle parole eterne: «Battezzate e insegnate a vivere ciò che ho comandato». «Battezzare» non significa versare un po’ d’acqua sul capo delle persone, ma immergere!

Immergete ogni uomo in Dio, fatelo entrare, che si lasci sommergere dentro la vita di Dio, in quella linfa vitale.

Insegnate a osservare. Che cosa ha comandato Cristo, se non l’amore?

Il suo comando è: immergete l’uomo in Dio e insegnategli ad amare. A lasciarsi amare, prima, e poi a donare amore. Qui è tutto il Vangelo, tutto l’uomo.