IV DOPO PENTECOSTE - Lc 17, 26-30.33


(Gen 6, 1-22; Gal 5, 16-25; Lc 17, 26-30.33)

Quante volte di fronte al dilagare del male, della corruzione e della violenza, ci è capitato di invocare una punizione esemplare, una purificazione capace di rimettere ordine in una società devastata?

Forse anche noi crediamo ancora che un nuovo diluvio universale possa resettare il mondo così come facciamo con il nostro computer quando non ne veniamo a capo.

Nella storia dell’umanità, in tutte le culture, il mito di una rinascita universale morale e civile sembra affidato a una sorta di bagno purificatore. Infatti esistono racconti simili al diluvio universale non solo nel Medio Oriente antico, specie in Mesopotamia, ma in tutti i continenti: nelle Americhe, in Africa, in India, in Cina e persino gli Eschimesi conoscono racconti simili.

Israele sembra sia venuto a contatto con i racconti mesopotamici del diluvio durante l’esilio a Babilonia, dove periodiche erano le esondazioni del Tigri e dell’Eufrate. L’esperienza della deportazione è stata per il popolo un’ esperienza drammatica analoga alla violenza delle acque che cancellavano e distruggevano tutto quello che incontravano. Infatti, dice la Genesi, la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza, non solo ma talmente ingiusta e iniqua che il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo!

Ma se il mondo è stato creato dal Signore, se l’Eterno aveva contemplato la creazione osservando che tutto era molto buono (1, 31),  com’è che ora si accorge che è corrotto?

Secondo questo capitolo della Genesi il male ha la sua radice nel cuore dell’uomo: l’uomo è l’unico responsabile e non deve scaricarne la responsabilità sulla natura, su Dio o su un’altra potenza. Non può nemmeno invocare la fatalità, la malvagità viene dal suo cuore, vale a dire nel linguaggio biblico dalla facoltà di percepire, di comprendere e di decidere.

Inoltre questa responsabilità è globale: la responsabilità è di tutta l’umanità, in quanto tale, senza distinzioni, perché nelle profondità del cuore umano si nasconde una forza di distruzione capace di cancellare l’universo. Dal comportamento degli uomini dipende la sopravvivenza del mondo.

Malvagità e violenza dunque sembrano le cause principali della rovina della creazione. Già i profeti avevano denunciato come la violenza spesso fosse la causa della decadenza di un regno, di un paese, di un popolo. Basti ricordare Geremia che così si rivolge al re di Giuda Ioacaz: Non sono gli occhi tuoi e il tuo cuore intenti solo al tuo guadagno e a versare sangue innocente e a operare oppressione e violenza? (22, 17).

La violenza condannata dai profeti è la stessa che causa la distruzione dell’universo secondo il racconto del diluvio. Un racconto che vuol mostrare che cosa accade quando un processo di violenza si spinge avanti. Il diluvio non è un castigo dall’esterno che distrugge, ma è l’implosione di un mondo corrotto e violento.

Andando avanti nel racconto veniamo a sapere dunque che la sopravvivenza del mondo dipende solamente dalla grazia di Dio, è lui che conclude un’alleanza incondizionata con il solo giusto, in questo caso Noè, che si trova sulla faccia della terra. L’arcobaleno sarà il segno di questa promessa dell’Eterno.

Eppure se la sopravvivenza del mondo è grazia, perché l’Eterno promette di non mandare più diluvi, c’è qualcosa che anche l’uomo deve fare: l’uomo può costruire l’arca. Siamo nel racconto del simbolo, quindi dobbiamo interrogarci perché l’Eterno dia delle indicazioni così precise e particolareggiate per realizzare quella che comunemente immaginiamo come una nave.

Se leggiamo con attenzione, ciò che Noè è chiamato a costruire più che una nave, appare piuttosto simile a un tempio! Infatti ha una forma rettangolare di 150 metri di lunghezza, 25 di larghezza e 15 di altezza (Il cubito antico è di circa 50 cm). Dentro questo tempio si riproduce il cosmo: ai tre piani corrispondono il cielo, la terra e il mondo sotterraneo con le specie animali.

Ecco la proposta di Genesi affinché l’uomo possa incanalare la violenza umana: nel tempio, nell’esercizio del culto, nel sacrificio presentato, l’uomo ha la possibilità di ritualizzare in maniera accettabile la sua forza distruttrice e il sacrificio è gradito a Dio!

Non è necessario scomodare la storia per capire che nemmeno questa strada sarà sufficiente affinché il cammino dell’uomo progredisca verso un’umanità giusta e non violenta, anzi molte volte le stesse religioni sono (state) motivo di una violenza e di una malvagità tali da minare la convivenza tra i popoli. Non basta dunque nemmeno la religione intesa come un sistema di atti di culto, di regole per garantire il futuro del mondo!

Gesù di per sé non ha fondato infatti una nuova religione, si è posto, come Noè, come un uomo giusto quale segno egli stesso di una nuova alleanza: la sua croce è il segno di un amore che si staglia appunto tra cielo e terra per tutta l’umanità e ci chiede di fidarci della logica evangelica.

Paolo, che ha ben compreso il vangelo, quando scrive ai cristiani della Galazia, riconosce che non basta appunto la Legge, la religione … non sono sufficienti la buona volontà o le nostre risorse psichiche per vincere le tendenze della violenza, quelle che lui definisce i desideri della carne. E come opere della carne elenca quattordici situazioni che sono sempre attuali e che abbracciano gli ambiti della vita personale e sociale, affettiva e relazionale.

Per certi aspetti di fronte al dilagare della violenza è più facile fare i profeti di sventura e arrivare perfino ad auspicare un nuovo diluvio, ma non saranno le acque del diluvio a far ritornare l’universo al caos primordiale per dare la possibilità di una nuova creazione. Occorre immergerci giorno dopo giorno nelle acque del battesimo, ovvero che ci immergiamo nella vita di Cristo.

Il che significa che se c’è una violenza da compiere, non sarà quella verso l’altro, verso la natura, verso gli animali, ma quella evangelica verso la tirannia dell’io: quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri, dice Paolo, o come afferma Gesù al termine del Vangelo: Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà; ma chi la perderà la manterrà viva.

Il vero diluvio consiste per ciascuno di noi nell’annegare la tirannia del nostro “io” e fidarci del modo di essere di Gesù. È in definitiva una questione di fede. Perché se è vero che il nostro mondo vive, ragiona, agisce e decide «come se Dio non ci fosse», in quanto lo considera irreale, inesistente, comunque irrilevante, è anche vero però che la storia di Gesù continua a suscitare un suo fascino e un certo interesse.

Perché se un uomo come lui è stato possibile, c’è ancora speranza per l’umanità.

Se dal grembo della storia è venuto fuori un uomo come Gesù, allora davvero un altro mondo è possibile. Ci coinvolge la sua umanità, ci interpella il suo non conformismo, ci affascina la sua parola …  Si può essere uomini anche così, come lo è stato lui.

E vivendo così allora sapremo portare quello che Paolo chiama il frutto dello Spirito, ovvero quei nove doni di cui ha tanto bisogno la nostra umanità: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé.

Non ci aspettiamo più che un diluvio purifichi il mondo, piuttosto impariamo giorno per giorno a mettere in croce i nostri desideri, pensieri e affetti sbagliati, ecco la violenza da esercitare nel vincere noi stessi, non per uccidere una dimensione di noi, ma per dare il meglio di noi, per la primavera della nostra umanità.