VII DOPO PENTECOSTE - Gv 16, 33 - 17, 3
(Gs 10, 6-15; Rm 8, 31-39; Gv 16,33 – 17,3)
L’ascolto della parola di Dio in queste domeniche dopo Pentecoste è un ascolto che ci fa ripercorrere i momenti più salienti della storia biblica (dalla creazione, attraverso Abramo, Mosè, oggi Giosuè…) ed è un ascolto che ci accompagna lungo l’estate, cioè in un tempo in cui potremmo dedicarci a fare un po’ di sintesi della nostra vita, dopo un anno trascorso convulsamente dietro alle cose, agli impegni, ai nostri ritmi serrati.
Infatti, credo che ascoltare di Abramo, di Mosè, di Giosuè ci aiuti per un verso a rimettere a fuoco queste figure di fede e a ricordare quanta misericordia e pazienza il Signore ha usato con loro e col suo popolo, ma può essere per noi anche l’occasione per cogliere il disegno d’insieme che si viene delineando, perché qui si parla anche di noi, delle nostre vite, delle nostre biografie.
L’esercizio che vi invito a fare durante l’estate, è proprio quello di rileggere la nostra stessa vita, come una storia di salvezza, come un’avventura nella quale il Signore non rimane indifferente e spettatore.
Anche per ciascuno di noi c’è stata una genesi, nel senso che il Signore un giorno ci ha dato il dono della vita, per ciascuno di noi un giorno si è acceso il miracolo della vita come per Adamo e Eva.
Ad un certo punto, come Abramo, abbiamo lasciato la terra della nostra fanciullezza e abbiamo dato ascolto alla vocazione che il Signore ci ha messo in cuore. Quando abbiamo avvertito la bellezza della promessa di Dio. La promessa di un terra è stata per noi il sogno di un futuro nel quale realizzarci, nel quale portare a piena maturazione i nostri doni e talenti…
Ci siamo poi resi conto che per giungere lì alla terra della promessa, per realizzare questo sogno, che per me ad esempio è stato il diventare prete o per molti di voi il matrimonio, abbiamo dovuto compiere anche noi il nostro esodo con la pasqua. Nel senso che ci siamo dovuti liberare dalle nostre schiavitù, dalle nostre abitudini per costruire un’esperienza nuova e inedita, perché se volevamo andare incontro al futuro, dovevamo liberarci da tutto ciò che ci teneva legati per accogliere il nuovo.
E così le nostre illusioni da innamorati o da idealisti hanno dovuto attraversare il deserto prima di giungere alla terra della maturità: ci siamo trovati anche noi nel deserto, dove le certezze di ieri erano scomparse e le garanzie del domani non si vedevano ancora, eppure lì il Signore ci ha formato, ci ha corretto, ci ha aiutato a purificare il cuore, attraverso errori e deviazioni abbiamo appreso a riconoscere la volontà di Dio.
E dal deserto della prova siamo giunti alla terra promessa, alla maturità che contrariamente alle nostre fantasie non è mai una condizione acquisita per sempre, né priva di contraddizioni, anzi, come per Giosuè la terra promessa è stata una conquista e un dono al tempo stesso, così anche noi abbiamo combattuto o stiamo combattendo le nostre battaglie con quei nemici che ci abitano per renderci conto che la terra promessa non è un luogo, una condizione ideale, ma è la metafora dell’Eterno stesso, della nostra vita con lui, come dice Gesù nel vangelo, che appunto si chiama vita eterna.
Il mio è solo un tentativo per invitarvi a rileggere la nostra vita con fede, ed è a questo che aiuta la storia di Giosuè. Giosuè in qualità di successore di Mosé potrebbe pensare, dopo aver attraversato finalmente il Giordano, di entrare con facilità nella terra promessa, in realtà si rende conto che la terra –metafora della vita – è sì un dono, ma non è un regalo: per abitarla deve combattere e deve affrontare una serie di ostacoli e di difficoltà, c’è una lotta che lui e il popolo devono sostenere.
Come la battaglia di cui ci parla la lettura di oggi: chiamato in causa dalla città di Gabaon, che gli è alleata e che sta subendo un attacco da cinque re Amorrei, Giosuè parte deciso notte tempo con il suo esercito che è accampato a 20 km di distanza in Galgala (vicino a Gerico) e sale a Gabaon. Giosuè percorre quella distanza, che tra l’altro ha 900 mt di dislivello, di notte così che l’effetto sorpresa di una imboscata gli permetta di avere la meglio contro un esercito più numeroso e meglio armato.
Complice una probabile eruzione vulcanica che si riversa sul versante degli eserciti nemici (le grosse pietre che il Signore lancia dal cielo!) e che oscura il sole e la luna, Giosuè si scaglia sui nemici e ne fa strage. L’intelligenza tattica di Giosuè e la coincidenza favorevole di fenomeni naturali sono interpretati come un aiuto di Dio nel combattimento e nella battaglia.
Certo è che siamo molto lontani dal voler far dire alla parola di Dio che queste righe difendono il sistema tolemaico (II sec. d. C.) contro quello copernicano (1543) ripreso da Galileo Galilei… ci rendiamo conto oggi quanto questa interpretazione sia distante, appunto, dal senso e dal suo significato.
La preghiera di Giosuè, il suo grido al sole e alla luna, la dicono lunga sul senso di questa battaglia, infatti non troverete in tutto il libro di Giosuè una qualche somiglianza con le epopee classiche che descrivono consigli di guerra, che raccontano strategie militari, che cantano i duelli fra gli eroi… E nemmeno con la nostra letteratura risorgimentale. Giosuè vince la sua lotta affidandosi a Dio: questa è una battaglia del Signore e il fatto che in quella zona vulcanica un’eruzione facesse piovere pietre sul campo del nemico, viene letto come una conferma che la battaglia la vince il Signore.
Quando Gesù del vangelo di Giovanni dice: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (16, 33), sappiamo bene che Gesù non ha imbracciato armi, non ha guidato eserciti… anzi egli è «L’agnello di Dio che porta su di se il peccato del mondo».
Cos’è questo «mondo», o più precisamente «il peccato del mondo»? Se non tutto ciò che nella nostra vita ci impedisce di essere noi stessi, di essere liberi di amare? Non sono forse questi i nostri nemici? Le tentazioni più o meno subdole che intralciano il nostro cammino verso quella terra promessa che è l’amore di Dio e la vita di Dio in noi? Non sono forse quegli idoli che tengono schiavo il cuore?
Per questo ognuno di noi ha da combattere la propria battaglia, la propria lotta spirituale, consapevoli come Giosuè della vertiginosa fragilità di quei peccatori che siamo noi, delle poche armi e dell’esiguità delle nostre forze, ma dall’altro certi che nella preghiera ci è dato di sperimentare la forza soave e irresistibile della grazia e dell’amore di Dio che non ci abbandona.
C’è un’ora in cui anche Gesù ha dovuto affrontare la sua dura battaglia. In quel giorno anche per lui il sole si fermò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il Signore in quel giorno ha vinto la battaglia più importante, ha vinto la morte e con lei ogni peccato, ogni bruttura e cattiveria. Il Signore ha saputo vincere una simile battaglia perché in quell’ora non si è tirato indietro, non si è lasciato prendere dalla paura o dal calcolo, ma alzando gli occhi al cielo si è affidato al vero vincitore di ogni battaglia, al Padre.
Giunti a questo punto della nostra vita, proprio lì nel momento in cui siamo oggi, se anche, come dice Paolo, abitiamo «la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo e la spada» ritroviamo fiducia, guardiamo alla nostra vita con la certezza che il Signore come non ha abbandonato la storia di chi ci ha preceduto, così non ci lascia soli e noi siamo «più che vincitori» grazie a colui che ci ha amati.