VI DOPO PENTECOSTE - Mt 11, 27-30
Mosè, raccontano i rabbini, era talmente impegnato nel pascolare il gregge di suo suocero Ietro, che non si rese conto di essere sulla montagna del Signore, sulla montagna dell’Oreb. Oreb è l’altro nome del Sinai, infatti nelle tradizioni più antiche, come nella tradizione sacerdotale, si chiama Sinai.
Fu proprio vedendolo badare agli animali che Dio riconobbe quanto Mosè fosse idoneo a fare da pastore al suo popolo.
Il Signore infatti, dice il midrash, non assegna mai a qualcuno un compito importante prima di averlo messo alla prova nelle piccole cose. Ecco perchè sia Mosè e più tardi lo stesso Davide, dovettero cimentarsi nel pascolo delle pecore e solo dopo essersi dimostrati abili in questo mestiere poterono esercitare il loro governo sul popolo.
Visto che non c’era modo di distrarlo dal suo lavoro, per parlare a Mosè, Dio dovette sorprenderlo con un fenomeno che ne attirasse l’attenzione: ecco un roveto che arde senza consumarsi!
Roveto, in ebraico “seneh” ha una certa assonanza con il nome Sinai e, probabilmente, il testo giocava sulla parentela tra le due parole, roveto-Sinai.
Mosè si trova già al monte Sinai dove tornerà con il popolo tanti anni dopo e lì Dio apparirà al popolo e vi concluderà un’alleanza. Mosè vi si trova già e anticipa tutto quello che accadrà dopo.
Il narratore dice al lettore che è l’angelo del Signore che appare, quindi noi sappiamo chi si fa vedere: l’angelo del Signore. L’angelo del Signore appare nel roveto, ma il roveto non è Dio, la fiamma non è Dio.
Per non identificare troppo rapidamente l’Eterno con una sua manifestazione, si dice: “l’angelo del Signore apparve”. È l’angelo del Signore, ma Dio è qui presente, infatti tutto il resto del testo parlerà di Dio, non dell’angelo.
L’Eterno appare, il lettore lo sa, mentre Mosè non lo sa. Mosè vede soltanto il roveto che brucia e non si consuma.
E c’è in tutta la narrazione un movimento di sguardi: l’angelo che si fa vedere, Mosè che guarda, il Signore che vede Mosè che si è avvicinato per guardare: tutta questa prima parte del testo è centrata sul vedere, farsi vedere e vedere.
L’angelo del Signore si fa vedere, ma Mosè vede soltanto il roveto che brucia. Mosè dice a se stesso: «Perché il roveto non brucia, perché non si consuma?».
Platone dice che «La madre della scienza è la capacità di stupirsi», dovremmo dire è “la curiosità”. Se Mosè non avesse detto: «Perché questo roveto non si consuma?», la storia di Israele sarebbe molto diversa, potremmo dire che gli israeliti sarebbero ancora là oggi a fabbricare mattoni in Egitto.
Infatti tutto inizia dalla curiosità di Mosè, dal suo perché. Ha visto qualcosa di strano, ha voluto saperne di più. Se avesse detto: «Devo portare al sicuro il gregge che mi è stato affidato, questa è la mia priorità…» non sarebbe accaduto nulla e invece del gregge non si parla più, non si sa poi che fine abbia fatto. Mosè viene completamente attirato, affascinato da quel fenomeno strano e da lì nasce la salvezza di Israele.
Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè» e lui disse: «Eccomi». E disse: «Non avvicinarti più, togliti i sandali, perché il luogo sul quale stai adesso è suolo santo». Togliere i sandali, un gesto molto semplice, significa che lì non ha autorità, è un luogo santo, perchè è altro, diverso dal luogo dove conduce le sue pecore.
Portare i sandali significa avere autorità. Ricordate il figlio prodigo: quando torna a casa, il padre lo accoglie e il figlio prodigo dice: «Io non sogno degno di un figlio, trattami come uno schiavo». Il padre gli dà sandali, perché i figli in casa portano sandali, gli schiavi invece no; ne fa un figlio, gli dà i vestiti, gli dà un anello, prepara un banchetto; i figli in casa hanno autorità, quindi portano i sandali.
Mosè si deve togliere i sandali, perché non ha autorità in questo suolo. Questo suolo non gli appartiene, non può fare quello che vuole, quello che gli piace. E quindi deve togliersi i sandali. Sta in casa altrui dove non ha nessuna autorità.
Poi Dio gli dice: «Io sono Dio di tuo padre, Dio di Abramo, Dio di Isacco e di Giacobbe» e Mosè si copre il volto per non guardare il Signore. Stranamente prima era curioso di vedere e quando vede si copre il volto!
Molto strano questo gesto: Mosè, quando sa di essere davanti all’Eterno, si copre il volto, per non guardarlo in faccia, si copre il volto, non vede più… e allora il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze» (Es 3, 7).
Se Mosè non vede più, è Dio che vede e dice a Mosè che cosa vedere.
È qui forse il punto importante. Mosè che non vede più, è invitato da Dio a vedere quello che vede Dio e a vedere con gli occhi di Dio.
A partire da questo punto Mosè vede le cose così come le vede Dio, cioè sente, conosce le cose così come le sente Dio.
E tutta la scena ha questo scopo: da questo momento Mosè diventa attento e sensibile alla sofferenza del popolo, alla miseria della sua gente e sente Dio che dice: «Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo» (Es 3, 10).
Il Signore ha bisogno di Mosè per salvare il suo popolo. E chi era Mosè se non, come dice il suo stesso nome, un uomo salvato dalla repressione del faraone e proprio in quanto salvato diventa a sua volta strumento di salvezza?
Così nell’incontro con l’Eterno che si fa vedere nel roveto ardente, Mosè vede il mondo in modo diverso, lo vede con gli occhi di Dio e diventa sensibile alla miseria del suo popolo. L’aveva lasciato dietro di sé e invece poi, come sappiamo, torna in Egitto, va ad affrontare il faraone, va ad affrontare anche il proprio popolo e lo fa uscire dall’Egitto.
Direte: perchè ti soffermi così tanto sulla prima lettura?
Perchè come già nel racconto del roveto abbiamo riconosciuto l’incontro e la rivelazione del Signore a cui ha fatto seguito la missione di Mosè, così nella narrazione evangelica la prima frase è uno dei testi nodali del vangelo di Matteo in cui Gesù rivela il suo rapporto col Padre, la sua divinità, il suo essere nella Trinità, e questo è un mistero che soltanto attraverso il superamento della ragione e l’accoglienza del dono di Dio possiamo accettare.
Siamo anche noi come Mosè di fronte al roveto: riconosciamo Gesù come figlio amato dal Padre, ma lo accogliamo come un dono che non possiamo padroneggiare, anche noi togliamo i sandali, ovvero non è una conquista della nostra mente, è un dono di Dio. O se volete, lo diciamo con le parole di Paolo: «la vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,5).
La seconda frase ci fa sentire la vicinanza di Gesù a ciascuno di noi perchè siamo tutti stanchi e oppressi: pensiamo alla nostra fatica del vivere, all’essere padre e madre di famiglia, alla fatica dello studio, del lavoro, anche nel cercarlo, a chi vive nella prova, nella malattia, nella solitudine… E chi di noi non è stanco in questo periodo dell’anno? Il ritmo di vita, il peso delle responsabilità, il logorio della routine…
Gesù ci lancia quasi una scommessa: voi che siete affaticati e oppressi caricatevi del mio giogo! Ma come? Sembra dire Gesù: voi che portate un peso tanto faticoso, e pensiamo agli schiavi che producevano mattoni e mattoni, provate a prenderne uno in più. Ma non uno qualsiasi, il «mio giogo» dice Gesù.
Che significa una fiducia totale in lui, il Signore, che non aggiunge un nuovo peso alla vita, come credono quanti hanno paura di vivere più radicalmente il Vangelo, di impegnarsi maggiormente, di pregare di più.
Nell’eucaristia ogni domenica incontriamo la rivelazione dell’amore inesauribile di Dio: l’eucaristia è l’amore di Gesù, è questo il nostro roveto ardente che non si consuma che ci mostra il cuore del Padre, che è il cuore di Gesù mite e umile: mite perchè paziente con le brutture del mondo e con le nostre infedeltà, e poi umile perchè è il cuore di Dio che si piega sul grido dell’umanità, che ascolta la miseria di tanta gente e la sofferenza di tante famiglie.
Se anche noi come Mosè facciamo l’esperienza di essere amati dal Signore e salvati nelle nostre stanchezze e oppressioni, allora saremo capaci di allargare il nostro sentire e di prestare ascolto al grido di larga parte dell’umanità che soffre, che non ha prospettive, che non è sicura del domani e non si sente rappresentata da nessuno dei poteri forti.
Pensiamo al grido dei paesi schiacciati dalla corruzione, dal commercio della droga e delle armi, alle nazioni oppresse dal debito, ai paesi le cui risorse sono sfruttate ed esportate senza che ne possano trarre beneficio; ai popoli senza libertà di espressione e di dissenso… Chi ascolta oggi il grido e la sofferenza di questa gente?
Noi ci sentiamo piccoli e incapaci, chi siamo noi? non siamo nessuno, non contiamo nulla, così come mi viene da pensare che nemmeno Mosè sarebbe stato invitato al G8, un pastore sconosciuto smarrito dietro a un gregge nel deserto! Ma penso che nemmeno Gesù, un profeta che viene da un oscuro villaggio di Galilea sarebbe stato preso in considerazione, eppure la vera svolta della storia l’hanno data loro.
È dall’eucaristia che riceviamo la missione di liberazione già affidata a Mosè e che Gesù ha fatto propria non consegnandoci una legge in più, un peso in più, ma consegnando se stesso per amore.
Che il Signore ci doni di ascoltare e conoscere il grido di tanta umanità schiava e oppressa, consapevoli che, come disse a Mosè: «Sono sceso a liberarlo dal potere d’Egitto e per farlo salire verso una terra bella», perchè la liberazione è sempre in salita, non è mai una via facile e scontata.