VI DOPO PENTECOSTE - Lc 6, 20-31


(Es 33, 18-34,10; Lc 6, 20-31)

Dopo aver ascoltato le letture di oggi, potremmo domandarci quale rapporto ci possa essere tra le beatitudini di Luca e l’esperienza di Mosè, il grande condottiero d’Israele, che ha visto le spalle di Dio?

Quando Mosè si rivolge all’Eterno e gli chiede: «Mostrami la tua gloria», ovvero «fatti vedere a me», non esprime il desiderio del mistico che vuole fare un’esperienza esclusiva di Dio. In realtà Mosè non cerca di elevarsi da questo mondo verso un mondo spirituale, lontano dalle preoccupazioni dell’umanità, per trovare presso Dio quella pace che questo mondo non può dare. La Bibbia non è mai una spiritualità di evasione.

Già in questa evidente constatazione possiamo trovare un punto d’incontro con le parole di Gesù che dice: Beati voi poveri, beati voi che ora piangete … parole nelle quali Gesù rimanda a un regno di Dio e a una felicità che già abitano sia pure in maniera paradossale la storia, la nostra terra.

Mosè rivolge questa richiesta al Signore nel momento in cui si rende conto che il popolo essendosi costruito un vitello d’oro si è reso responsabile di un grave peccato e quindi l’Eterno avrebbe tutti i diritti di comminare una pena esemplare.

Come è possibile? Hanno appena fatto l’esperienza di essere liberati dalla schiavitù, una liberazione che è stata un dono gratuito e solo dopo Dio aveva chiesto di osservare le dieci parole, la legge, come risposta d’amore a un amore che lo aveva preceduto … ebbene questa gente non lascia passare nemmeno quaranta giorni (24, 18), che già sente la nostalgia dell’Egitto e si fabbrica un idolo d’oro!

È in questo contesto che Mosè intercede presso Dio affinché l’Eterno non castighi, ma continui a camminare in mezzo al suo popolo.

Mosè non chiede qualcosa per sé, un favore esclusivo, ma chiede di vedere la gloria (in ebraico la parola gloria è della stessa radice del verbo essere pesante, avere peso), domanda di vedere il peso di Dio nei fatti contraddittori della storia umana.

Il Signore risponde con le parole: «Farò passare davanti a te tutta la mia bellezza / bontà». È importante notare che Dio usa il termine passare per descrivere il modo in cui si manifesterà a Mosé. Dio non dice: io starò davanti a te, ma farò passare tutta la mia bellezza/bontà davanti a te.

Il Dio che incontra Mosè è un Dio che passa, un Dio che si muove, un Dio che parla!

Il vitello d’oro è una statua immobile che ha bisogno di essere portata a spalle, perché possa camminare alla testa del popolo.

L’idolo è statua muta, Dio parla. L’idolo è un surrogato e fa quello che tu gli chiedi, ma Dio cammina con te e tu puoi camminare dietro a lui.

Infatti, vi sarete chiesti perché Mosè – posto nella cavità della roccia – potrà vedere l’Eterno solo di spalle? Perché non può vedere Dio faccia a faccia, ma solo di spalle?

Uno vede le spalle dell’altro quando gli sta dietro.

Così Mosè vede le spalle di Dio perché l’Eterno cammina davanti per guidare Israele nel deserto verso la terra promessa. Chi vuol vedere Dio deve seguire Dio.

Il modo di vedere l’Eterno è seguirlo, stargli dietro, camminare dietro a lui.

Questo mi fa pensare a due considerazioni per la nostra vita.

Prima considerazione: nessuno di noi ha mai visto Dio. Ma è anche vero che se osserviamo la nostra vita passata, se la leggiamo con lo sguardo non semplicemente dell’efficienza, ma con quello della fede, possiamo riconoscere il passaggio di Dio in alcuni frangenti della nostra esistenza.

Solo dopo, a distanza di tempo, possiamo dire: forse proprio in quel momento il Signore mi ha preso per mano, mi ha fatto sperimentare la sua misericordia e il suo amore.

Così potremmo anche noi, in un certo qual senso, rileggere tutta la nostra vita alla luce della narrazione della storia di salvezza, delle tappe del popolo d’Israele.

Anche noi abbiamo avuto la nostra genesi e poi il nostro esodo; abbiamo costruito i nostri vitelli d’oro, abbiamo amato gli idoli affascinanti del momento, per poi tornare al Signore e sperimentare il suo perdono … e questo ci deve rendere consapevoli di una cosa importante che non si dà la prima alleanza (il dono delle tavole) senza che essa sia sperimentata come nuova alleanza (perdono).

Il decalogo non si può vivere come se fosse semplicemente una legge naturale. Israele deve prendere coscienza del tradimento del patto e, pentito, accogliere il perdono di Colui che non può e non vuole lasciare che il popolo da sempre amato si lasci distruggere dalla violenza e dalla vuotezza illusoria degli idoli, dai vari «vitelli d’oro».

Così anche noi, se vogliamo vedere le spalle di Dio, abbiamo bisogno di metterci talvolta come Mosè nella cavità della rupe per contemplare la storia di Dio con noi, per imparare a riconoscere la bellezza della sua presenza nella nostra biografia malconcia!

C’è poi una seconda considerazione che mi viene dal vangelo, perché Gesù ci fa compiere, per così dire, un passo avanti.

A chi vuole vedere Dio, a chi cerca in qualche modo il suo volto, non solo come Mosè dobbiamo imparare a vederlo di spalle, cercarlo cioè nella nostra storia, nel nostro passato, ma dicendo: Beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio, beati voi che ora avete fame … beati voi che ora piangete … Gesù ci annuncia che il volto di Dio è nel povero. L’Eterno è laggiù nel Corno d’Africa che soffre la fame e la sete; è nella corsia d’ospedale qui vicino dove l’umanità piange …

Vedere le spalle di Dio, significa vedere le spalle di quella parte di umanità che porta il fardello del dolore, della sofferenza, della povertà: Dio abita lì, lì c’è il regno di Dio e non altrove!

Perché c’è un’altra parte che invece se la gode, ma per essa bastino le parole del Signore (guai a voi ricchi), non ne aggiungo altre.

Perché se tu dici di vedere e di amare Dio, ma non vedi e non ami l’uomo, non stai vedendo l’Eterno, bensì un suo surrogato, un idolo.

L’idolo non è solo un oggetto, una statua, anche l’ideologia può diventare una forma di dipendenza, di violenza, come quanto è successo in questi giorni in Norvegia: non dobbiamo imputarlo semplicemente alla follia, alla pazzia. È il frutto di un’ideologia malata cui si è asserviti e che in nome delle idee non riconosce più l’umano, le persone.

Invece, ci dice Gesù, se diciamo di amare Dio, amiamo anche tutto ciò che il Padre ama. Ameremo dunque anche i nostri nemici, perché il regno di Dio è il regno dell’iniziativa assoluta dell’amore, di un amore senza misura, di un dono fino alla fine.

In questo è la beatitudine, la felicità. Quante volte abbiamo pensato che la felicità si potesse confondere semplicemente con il benessere. Per quanto ci si impegni a produrre felicità con accanimenti terapeutici, biochimici e quant’altro … La felicità sfugge all’ossessione della sua conquista. L’angoscia di perderla già ce l’ha fatta perdere.

La felicità è la grazia, è il dono, è la gratuità.

Chi ragiona secondo il mondo, si guarderà bene dal prestare qualcosa a chi non potrà restituirgliela. Farà anzi prestiti ad interesse. Tutt’altra sapienza reggerà la coscienza di chi attraverso Gesù ha imparato ad attingere al cuore del Padre.

Non facciamo di queste parole di Gesù – la guancia, il mantello, la tunica – precetti da distribuire in modo ridicolo.

Non sono parole, questo amore è stato vissuto realmente dal Figlio, nella cui passione ha brillato il modo con cui il Padre ama: Gesù non ha reagito con violenza agli schiaffi; non solo si è lasciato portar via il mantello, ma anche la vita; e mentre dall’alto della croce guardava i soldati che si giocavano la tunica, ha pregato per loro, dicendo: Perdona perché non sanno quello che fanno.

Questa è la gloria di Dio che il mondo chiede di vedere. Preghiamo insieme perché ci sia dato almeno di esserne un qualche riflesso nella vita di ogni giorno.