I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Mt 28, 16-20
(At 13, 1-5; Rm 15, 15-20; Mt 28, 16-20)
Parlare oggi di giornata missionaria ci fa subito pensare alle donne e agli uomini, religiose e preti, ma anche a quelle famiglie che sono partiti per vivere la missione in Africa, in Asia, in America… in quelle culture, in quei Paesi dove il vangelo deve essere ancora annunciato e noi oggi preghiamo per loro, portiamo nel cuore il ricordo di quei missionari religiosi o laici che conosciamo, con cui abbiamo condiviso magari un’esperienza, un aiuto… e questo è doveroso, è necessario.
Ma dobbiamo dire anche che questo Vangelo oggi è per noi, le parole di Gesù sono rivolte a noi che siamo qui. Anche a noi il Signore dice: Andate e fate discepoli, battezzandoli… e quindi ci domandiamo che cosa questa parola di Gesù significhi per noi che viviamo qui, in questa parte del mondo evangelizzata duemila anni fa.
Siamo al cap. 28 di Matteo, alle battute finali del suo Vangelo. E possiamo ben immaginare la condizione di quegli undici che avevano seguito il Signore e avevano condiviso con lui la sua missione. Sapevano bene quanto Gesù avesse a cuore il desiderio che l’annuncio che il regno di Dio è vicino arrivasse ai suoi contemporanei. E lo diceva a tutti: ai farisei, ai sacerdoti, ma anche a coloro che normalmente erano considerati lontani: i peccatori pubblici come i pubblicani, le prostitute… ma anche a coloro che vivevano male la loro malattia perché considerata un castigo di Dio, ai lebbrosi, ai ciechi…
Tutto questo era parso bello, difficile da far accettare a tutti, ma era un annuncio affascinante perché apriva una nuova idea di società, di umanità, ma anche di religione. Anzi, alcuni pilastri della religione sembravano crollare sotto le parole di Gesù, il tempio non era più necessario, l’importante, diceva Gesù, era fidarsi di Dio che diceva essere vicino… e fu così che il profeta di Nazaret venne brutalmente tolto di mezzo e in pochi giorni sembrò che il suo sogno svanisse.
Fino a quando è tornato risorto. E questo nessuno se lo aspettava. Eppure dapprima le donne, poi Pietro e Giovanni e via via ai suoi discepoli fu dato di riascoltarlo e di vedere che davvero Dio gli era vicino perché lui era di nuovo con loro. Ma un giorno, raccolti come spesso capitava sul monte, chiese loro di continuare quello che lui aveva fatto: Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo… ecco io sono con voi tutti i giorni…
Anzitutto dobbiamo riconoscere che sono parole inedite. Nel Primo testamento non c’è un invito analogo così esplicito. Anzi i maestri spirituali, i rabbini, i farisei e i sacerdoti avevano il compito di proteggere il popolo e l’alleanza con le regole della purità rituale, dell’osservanza ai più diversi livelli di vita sociale…
Certo i profeti avevano annunciato una visione più avanzata: una visione nella quale tutti i popoli prima o poi si sarebbero recati sul monte Sion, nella Gerusalemme nuova… ma erano pur sempre i popoli a venire a Gerusalemme!
Qui Gesù invece sospinge i suoi a varcare quei confini che egli stesso in poche occasioni aveva voluto attraversare, per andare a fare discepoli tutti i popoli e a battezzarli. «Fare discepoli» poteva risultare chiaro, perché c’erano tanti maestri anche allora, come sempre, che raccoglievano intorno a sé gruppi più o meno numerosi di adepti… ma cos’è questo battezzare? Significava continuare quello che aveva fatto il Battista? Oppure fare quello che facevano gli Esseni a Qumran?
Per i discepoli di Gesù era chiaro che non si trattava di andare in giro a immergere la gente in un fiume, nel senso stretto di celebrare il sacramento del battesimo, perché sapevano bene che Gesù non aveva iniziato semplicemente una nuova religione, un nuovo movimento spirituale. Ma si trattava di immergere gli altri in un’esperienza nella quale erano stati introdotti, grazie a Gesù, di immergere nella vita del Padre, del Figlio e dello Spirito coloro che si sentono lontani da Dio e che ne hanno un’idea distorta al punto da prenderne le distanze.
Si tratta di immergere nella vita di un Dio che è comunione e amore e non paura e senso di colpa. Questa la missione che Gesù affida ai suoi discepoli, alla sua Chiesa, una missione che porta speranza e amore, perché la Chiesa è una comunità di persone, animate dall’azione dello Spirito Santo, che hanno vissuto e vivono lo stupore dell’incontro con Gesù Cristo e desiderano condividere questa esperienza di profonda gioia.
Già domenica scorsa Pietro diceva ai cristiani che erano pietre vive di un sacerdozio santo per offrire sacrifici spirituali… cosa analoga la sentiamo da Paolo nella lettera ai Romani, quando si presenta come ministro di Cristo Gesù, lett. liturgo del Cristo perché le genti divengano un’offerta gradita…(v.16). La missione è un atto liturgico non nel senso che si compie in un rito, troppo facile e al tempo stesso pericoloso, ma nel senso che ha a cuore che tutte le genti riconoscano Dio come Padre e vivano da figli amati e che si immergono in questa relazione.
Ecco perché la missione evangelica non è propaganda, non è proselitismo… anche se ancora oggi alcuni la intendono così. Proselitismo è ad esempio l’atteggiamento di coloro che si recano nei Paesi a maggioranza ortodossa a propagandare il proprio gruppo, il proprio movimento con elargizione di denari… e proprio per questo, come dice papa Francesco: il proselitismo è una solenne sciocchezza! (intervista a Scalfari).
Alcuni sono rimasti perplessi da queste parole del Papa: ma come non dobbiamo convertire gli altri? Sì perché questo appartiene alla nostra arroganza di presumere di essere così bravi da voler convertire il mondo. Ma il Signore ci chiede di annunciare il Vangelo, la conversione dei cuori è opera di Dio! anche perché a ben guardare c’è tanto da convertire in noi che facilmente e quasi immediatamente scivoliamo nell’identificazione della fede con le nostre cose, con le nostre appartenenze.
Pensiamo che l’attività missionaria sia «fare qualcosa per …» nel senso di una chiesa che si deve espandere, che deve crescere numericamente e nelle sue strutture, di una chiesa che deve essere sempre più riconosciuta nella sua visibilità, capace di presidiare spazi sempre più ampi… Gesù non dice: organizzate, occupate i posti chiave, mettete al potere tutti quelli che la pensano come voi … ma «Andate…e battezzate nel nome del Padre…». Non annunciate una politica, ma nemmeno «una» teologia, non un gruppo o una spiritualità… queste sono cose belle, ma sono strumenti e sono veri solo se si sottomettono al servizio dell’unica parola che conta e che può salvare, il Vangelo.
Cosa fanno Paolo e Barnaba prima di cominciare il loro primo viaggio apostolico, descritto nel libro degli Atti? Digiunano e pregano e poi ricevono l’imposizione delle mani. Non sono gesti scaramantici per far sì che tutto vada bene, per avere successo!
1 .Digiunano che è come saper dominare la nostra smania di dominio, di controllo, di potere anche religioso. Occorre digiunare per la missione, cioè saper smettere tutte le nostre idee, lasciare che la fame di Dio riempia il cuore.
2. E poi pregano: nel senso che vivono loro per primi quella relazione nella quale sono mandati a immergere gli altri. Pregare è rivolgersi al Padre, come ha pregato il Figlio, nello Spirito santo.
3. Infine ricevono l’imposizione delle mani. Un gesto bellissimo. Il segno di una comunione e di un invio, di un mandato da parte della comunità viva. Penso ai genitori, alle nostre famiglie, ai preti che ci hanno immersi nell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo con la semplice testimonianza delle loro vite. Ringraziamo il Signore per chi ci ha trasmesso il dono della fede e preghiamo per essere capaci di continuare questa missione con cuore semplice e umile, senza la preoccupazione di convincere, di convertire, di avere successo… perché in definitiva questo significherebbe cercare ancora noi stessi, ma ancor più vorrebbe dire che non ci fidiamo della promessa di Gesù: Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Il Signore c’è comunque, e allora, come diceva papa Francesco «Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».
Per contro invece «Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante» (Intervista alla Civiltà cattolica, 19 settembre 2013).
Se ci fidiamo di Dio, ci sarà dato di scoprire che quando arriviamo noi, Dio era già arrivato; ci sarà dato di scoprire che nel cuore di quel giovane, di quel figlio… che pensavamo lontano, il Signore è arrivato ancora prima delle nostre preoccupazioni. Il Signore ha già fatto il suo lavoro, ha già fatto della strada con lei, con lui…anche se noi non ne avevamo l’evidenza.
Per questo dico per me e per ciascuno di voi la bellissima benedizione di santa Chiara: Il Signore sia sempre con voi, e voi fate in modo di essere sempre con lui!