III DOPO L’EPIFANIA - Lc 9, 10b-17


Possiamo guardare alla moltiplicazione dei pani e dei pesci operata da Gesù con gli occhi sbalorditi dal miracolo, perché dar da mangiare a circa cinquemila uomini non è cosa da poco, proprio come a Cana di Galilea l’acqua trasformata in vino era una quantità spropositata (sei giare contenenti 120 litri ciascuna), quanto bastava per lasciare tutti strabiliati.

Ma dipende da come si guardano le cose: se ti lasci abbagliare dal miracolo sembra che le cose si possano cambiare magicamente sperando sempre in un intervento dall’alto!

Ma avevamo già visto come a Cana di Galilea Gesù ci insegna che il miracolo non consiste nel fatto che al mondo non ci sia il male, il dolore, la fatica, le lacrime… ma nel trasformarlo. Così, analogamente nel segno di oggi, Gesù ci dimostra che la condivisione è possibile. Domenica scorsa la parola chiave era trasformazione, oggi è condivisione, tant’è che mangiano cinquemila persone. Ma come condividi? non puoi pensare che ci sia pane per tutti senza che tu doni del tuo, anche il poco che hai.

Notate che Gesù dona il pane alle folle e lo fa accompagnando il gesto con i verbi dell’ultima cena: prese, alzò gli occhi, disse la benedizione, li spezzò e li dava… e questo è il criterio ermeneutico per cogliere il gesto di Gesù non come un miracolo, ma come un principio di responsabilità, infatti nell’eucaristia Gesù dona se stesso e quel giorno vicino a Betsaida, chiede ai discepoli di dare quel poco che hanno: voi stessi date loro da mangiare! (v.13).

C’è un termine che avvicina la lettura di Luca e il libro dell’Esodo: siamo nel deserto, al v. 12 Luca fa dire ai Dodici: qui siamo in una zona deserta. Cosa non vera geograficamente perché Betsaida è sulle rive del lago di Genezaret, nella verde e fertile Galilea, ma rimandando al deserto conduceva i suoi ascoltatori a rivivere l’esperienza dell’esodo. Esperienza nella quale ad un certo punto il popolo manca di pane, ed è sempre Mosè che chiede a Dio di far scendere pane dal cielo.

Gli ebrei finalmente liberi, si allontanano dalla frontiera egiziana, fieri della libertà appena conquistata, si lanciano nel nuovo cammino. Ma bastano pochi giorni di marcia perché guardandosi intorno si rendano conto che essi stanno camminando nel deserto, dove non c’è acqua, non c’è cibo… ecco l’esperienza paradossale: sono liberi, formalmente liberi, ma di fronte alle prime difficoltà non sanno vivere da persone libere.

Quando le cose non vanno, l’atteggiamento più immediato e diffuso è quello che l’esodo chiama le mormorazioni: la gente mormora, Fossimo morti in Egitto quando eravamo seduti presso la pentola della carne! C’è anche un poco di idealizzazione, probabilmente non è che in Egitto avessero poi così tanta carne. Avevano, come sappiamo da altre fonti storiche egizie, soprattutto le cipolle, le famose cipolle d’Egitto!

Pensare che si stava meglio quando si stava peggio è equivalente a dire che è meglio vivere da schiavi: laggiù in fondo si stava bene, anzi meglio di come si sta nel deserto. Vorremmo che Dio fosse un dio di schiavi e non un liberatore, infatti le mormorazioni sono in realtà delle vere e proprie obiezioni rivolte contro Dio stesso.

È l’iniziativa di Dio che permette alla gente di accorgersi di quello che c’è intorno a loro: il deserto che sembrava ad essi il luogo ostile e inabitabile per eccellenza, si riempie improvvisamente di segni di benedizione. Con meraviglia e stupore gli ebrei scoprono che tutto il mondo ad essi circostante si dimostra singolarmente ospitale e tutto sembra favorire la loro sopravvivenza e il procedere del loro cammino.

Quando videro per la prima volta la manna essi si dissero l’un l’altro: Man hu? che cos’è? Perché non sapevano cosa fosse, e Mosè: È il pane che il Signore vi ha dato.

Da quando gli ebrei si posero questa domanda, che cosa succede, cos’è sta roba? il deserto diventa per loro il luogo della meraviglia e il testo biblico insiste molto nel sottolineare che si tratterà di una meraviglia quotidiana,  che si raccoglierà ogni giorno la razione di un giorno. La vita appare avvolta da un manto di meravigliosa benevolenza.

Ogni giorno ad ogni famiglia di ebrei sarà data la quantità di manna necessaria al suo sostentamento, non potrà essere accumulata, ma servirà esclusivamente per quel giorno.

Ecco come si vive la libertà, come coloro che sopravvivendo nel deserto si sentono ospiti in un mondo che quotidianamente offre a tutti i doni di Dio per vivere. Il deserto insegna a vivere nella libertà dall’accumulo. L’accumulare rende schiavi, il deserto rende liberi.

Le prove nel deserto sono un itinerario di formazione in cui la tentazione di tornare indietro è molto forte. Il Signore li ha liberati, ma loro non sono ancora pienamente liberi. C’è ancora nel cuore degli ebrei un po’ di Egitto. Secondo un detto rabbinico per il Signore è stato più semplice far uscire gli ebrei dall’Egitto che l’Egitto dal cuore degli ebrei.

Ecco perché è importante che i due passi rimandino alla condizione del deserto, Gesù vuol condurre chi crede in lui a vivere da persone libere, e come ben sappiamo la libertà è qualcosa che si conquista a caro prezzo, mentre la schiavitù può dare dei vantaggi: una certa sicurezza, una certa quiete, non si deve conquistare nulla. Ci si lamenta, si mormora, ma alla fine… la schiavitù è uno stato privo di rischi dal punto di vista personale.

L’episodio della manna sospinge il popolo a guardare il mondo circostante con occhi diversi e a sapervi riconoscere i doni di Dio, anche laddove sembra proprio che non ce ne siano.

Analogamente i cinque pani e i due pesci che alla fine bastano per tutti sono il segno della condivisione, dell’uguaglianza fra tutti, il segno della produzione senza accumulare.

Se uno prendeva troppa manna, quella marciva… sembra di ascoltare le parole della Preghiera del Signore: dacci oggi il nostro pane quotidiano!

Effettivamente nel cammino nel deserto nessuno diventa povero e nessuno diventa ricco.

Parole che non descrivono la nostra condizione se è vero come diceva un recente rapporto[1] che la distanza tra ricchi e poveri nel nostro pianeta si fa sempre più polarizzata, al punto che otto persone possiedono da sole la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta.

Un dato come questo deve farci capire che in un mondo in cui l’1% dell’umanità controlla la stessa quantità di ricchezza del restante 99% non sarà mai stabile.

Mi ha sempre colpito la storia di Emilia, una nonna dell’isola di Lesbo che durante gli arrivi a ondate dei profughi dalle coste turche, andava ogni giorno per settimane sotto il platano che sta sulla riva del mare per dare loro una coperta, un po’ di formaggio, o anche solo un abbraccio. Quando arriva una barca non ti domandi se i migranti e i loro figli hanno i documenti a posto, da dove arrivano e perché. Pensi ai tuoi nipoti della loro età, e anche se hai ottantacinque anni e cammini col bastone fai quel che puoi per dare una mano.

Oppure la vicenda del 37enne contadino francese Cédric Herrou, che da oltre un anno si occupa di ospitare e rifocillare gli immigrati in difficoltà all’ingresso della valle della Roya, una zona montuosa della Provenza, al confine con l’Italia, dove vive e coltiva i suoi olivi.

Da qui, ogni giorno tentano di passare decine, centinaia di migranti provenienti dal nostro paese a piedi, per sfuggire ai controlli della polizia, che da oltre un anno rimanda indietro quelli che transitano da Ventimiglia. Vengono dal Ciad, dall’Eritrea, dal Sudan. Cédric li recupera col suo furgone e offre loro da mangiare e dormire, nei due camper e nelle quattro tende piazzate sul suo terreno. Dopo qualche giorno li lascia ripartire, oppure affida i minori alle autorità, perché se ne prendano cura. L’8 febbraio sarà processato con l’accusa di «aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno di stranieri irregolari».

La strada per una convivenza umana più sicura è la condivisione di quello che si ha. C’è un particolare sul quale richiamo la vostra attenzione, osservate come Gesù organizzi nel dettaglio le cose: fateli sedere a gruppi di cinquanta circa.

La Parola dà alla folla, fino allora anonima, la forma di cerchi formati da fratelli e sorelle, da gruppi di amici.  La Parola edifica una casa, una comunità in cui vivere da persone giuste. Proprio ciò che comanda Gesù accade nelle prime comunità cristiane. La Parola trasforma la folla in “casa” e così insieme si impara a condividere la festa della vita.

Preghiamo allora in questa settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, affinché anche tutte le chiese obbedendo alla Parola di Gesù siano in grado di realizzare il medesimo segno.

(Es 16,2-7a. 13b-18; Lc 9, 10b-17)

[1] Rapporto Oxfam, www.oxfam.org