I DOMENICA DOPO PENTECOSTE - Solennità della Santissima Trinità - Gv 15, 24-27
(Es 33, 18-23; 34, 5-7a; Rm 8, 1-9b; Gv 15, 24-27)
Potremmo a ragione considerare la festa liturgica della Trinità per certi aspetti quasi superflua: infatti ogni domenica, ogni eucaristia è la celebrazione della misericordia del Padre, della vita donata dal Figlio e del dono dello Spirito santo.
Tutte le preghiere che proclamiamo nell’eucaristia sono sempre rivolte al Padre, per intercessione del Cristo e nel nome dello Spirito. Al punto che potremmo dire che vivere la liturgia cristiana è un continuo immergerci nell’oceano dell’amore trinitario.
Ma anche molto più semplicemente, ogni volta che tracciamo il segno di croce su di noi, toccandoci la mente, il cuore e le spalle, lo facciamo appunto nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito. Come a dire che vorremmo che i nostri pensieri collimassero sempre più con i pensieri dell’Eterno, vorremmo che il nostro cuore palpitasse almeno un poco dell’amore che Gesù ha per noi e vorremmo altresì che le nostre azioni, come sta ad indicare il segnarci le spalle, fossero secondo lo Spirito.
Ecco già da queste brevi suggestioni ci rendiamo conto che il mistero trinitario non è un rompicapo teologico, e rimanendo al linguaggio biblico, non è nemmeno una questione di numeri: inutilmente non troveremo non solo nel Primo testamento, ma nemmeno nel Nuovo, un qualche rimando all’essere uno, due o tre.
Così come non incontriamo mai il sostantivo “Trinità”: dobbiamo aspettare il IV secolo, quando il Concilio di Nicea (325) il primo concilio della Chiesa dopo quello di Gerusalemme (anni 40 – se si può considerare tale) formalizzò questa definizione, in un clima culturale effervescente.
Possiamo solo immaginare cosa abbia significato l’incontro della fede cristiana, fondata biblicamente e ebraicamente, con la cultura ellenistica e con la filosofia greca. Quanta ricerca, quante discussioni e confronti per conciliare ad esempio il monoteismo biblico e la rivelazione trinitaria, quanta fatica per custodire la fede dalle derive delle eresie e per arrivare a fissare quelle verità che professiamo ogni domenica.
Siamo lontani dai tempi in cui al mercato del pesce di Alessandria d’Egitto si discuteva del Verbo incarnato, della Trinità di Dio!
Non dico questo per nostalgia, ma la nostra sensibilità e la nostra cultura oggi si affacciano sul mistero della Trinità, nella fedeltà ai dogmi della fede, ma con un linguaggio che parla piuttosto di relazione, di comunione, di unità nella diversità.
Don Tonino Bello raccontava di una sera in cui mentre stava preparando un discorso sulla Trinità andò a trovarlo un suo prete che lavorava con gli zingari e questi quando il vescovo gli lesse la paginetta che aveva scritto, gli disse che con tutte quelle parole la gente forse non avrebbe capito nulla.
Poi aggiunse: «Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra. E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia, dove ogni persona è relazione con l’altra. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri».
Ed è contemplando questa relazione del mistero Trinitario che guardiamo le nostre relazioni: ognuno di noi, in quanto persona, è essenzialmente un essere in relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l’altro. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile!
La Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, se oggi c’è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione delle nostre relazioni e dei nostri rapporti interpersonali.
Anche se oggi molti potrebbero dire: altro che relazioni, l’acidità ci inquina. Ogni giorno ci dotiamo di robuste corazze per difenderci. Più che luoghi d’incontro, costruiamo recinti e steccati. Sperimentiamo l’altro più come limite del nostro essere che come volto nel quale cominciamo a esistere veramente.
E questo purtroppo lo vediamo anche nella Chiesa che è chiamata ad essere nel suo insieme, nel suo essere popolo di Dio, icona della Trinità per il mondo, e la osserviamo alla luce di quanto riempie la cronaca di ogni giorno: i fatti e gli eventi che sono venuti alla ribalta in queste settimane, ci fanno capire che il livello della vita in quella che dovrebbe essere la “santa” Sede si è abbassato a tal punto da sembrare una specie di corte fatta da intrighi, maldicenze e imbrogli.
Credo che all’origine ci sia una relazione infranta, una relazione interrotta, ed è lo scollamento grave tra i vertici e la periferia della Chiesa. La distanza tra la vita con tutta la sua bellezza ma anche tumultuosità, la sua fatica e le ambizioni, le frustrazioni che sono proprie degli esseri umani.
Eppure è proprio da qui che si può rinnovare la comunione e l’unità, se gli alti vertici prendono consapevolezza che la Chiesa esiste perché c’è il padre e la madre di famiglia che mandano avanti la loro casa a fatica ma con dignità; perché c’è chi segue da mesi o magari da anni il genitore anziano e malato con una tenerezza inaudita; perché ci sono catechisti e parroci, missionari e preti di campagna e di periferia che con semplicità annunciano il Vangelo, e notte e giorno lavorano infaticabilmente e nel silenzio.
Certo ognuno con i propri limiti, ma sono loro che devono essere ascoltati, sono queste le relazioni che vanno accese e sostenute, perché è grazie a tutti costoro che nessuno conosce, che la Chiesa esiste.
Allora può avere un senso che proprio in questa domenica la chiesa di Milano abbia la visita del successore di Pietro e lo accolga con quell’atteggiamento che trovo ben descritto in tre versi di David Maria Turoldo:
«Mia Chiesa amata e infedele
mia amarezza di ogni domenica
Chiesa che vorrei impazzita di gioia».