V DI PASQUA - Gv 14, 21-24


(At 10, 1-5.24.34-36.44-48; Gv 14, 21-24)

Forse molti di noi ricorderanno quel gioco – se così si può definire – che si faceva una volta da bambini quando sfogliando i petali di un fiore per cercare di indovinare se quel primo amore segreto poteva avere un futuro, si ripeteva: Mi ama, non mi ama…

Sembra quasi che anche Gesù nella pagina di oggi sia lì davanti ai suoi a sfogliare quel fiore: Se uno mi ama…, se uno non mi ama, e questo dice la sua preoccupazione principale, ovvero che i suoi lo amino, che noi lo amiamo.

Siamo nel contesto dei discorsi dell’ultima cena e Giuda, non l’Iscariota, è il quarto degli apostoli che interroga Gesù e la sua domanda è: «Perché mai ti manifesti a noi e non al mondo?». Il Messia dovrebbe manifestarsi al mondo, invece Gesù ha appena detto che il mondo non lo vedrà più, lo vedrà soltanto quando lo avrà innalzato sulla croce. Voi invece, dice ai suoi, mi vedrete ancora, anche dopo, tranne un breve momento in cui sarò nel sepolcro.

Ma «come» ci è dato di vedere il Signore? La domanda di Giuda fa dire a Gesù che non c’è manifestazione di Cristo all’infuori di quella che avviene nell’amore. I discepoli con il loro amore per Cristo saranno testimoni che lui è Vivente.

Il nuovo modo di vedere Gesù sarà quello dell’amore, perché è l’amore che vede, è il cuore che vede, non l’occhio. Una persona è presente se la ami, se non la ami anche se c’è ti dà solo fastidio, meglio se non ci fosse. In altre parole l’annuncio del Vangelo non è una proclamazione di principi, ma è un concentrato d’amore e di quell’amore che ci è dato da Gesù e dal Padre.

Solo se amiamo Gesù, se lui è al centro del nostro affetto e del nostro cuore – e non solo della nostra testa – allora osserviamo la sua Parola e siamo dimora di Dio. Per contro se chiudiamo il nostro cuore all’amore e non viviamo la Parola del Figlio, non viviamo da figli, non conosciamo il Padre, non conosciamo i fratelli, ci chiudiamo a Dio.

Mi vengono in mente a questo proposito due esempi per raccontare come in questa settimana abbiamo sfogliato anche noi il fiore della vita dicendo «amo», ma anche «non amo».

Il primo esempio di amore ci viene dalla giovane donna Meriam Yehya Ibrahim, cristiana ortodossa sudanese, incinta di 8 mesi, in cella con l’altro figlio di 20 mesi, che non ha rinnegato la propria fede anche se consapevole di andare incontro alla condanna a morte. Certamente vogliamo sperare che la mobilitazione internazionale riesca a impedire che tale condanna venga eseguita, perché è fondamentale fare ogni sforzo possibile per impedire l’ingiustizia, per far rispettare i diritti e la dignità di ogni essere umano, ma a noi oggi è chiesto di accogliere la testimonianza di fede e di amore che tante vite di nostri fratelli e sorelle non cessano di offrirci.

Il cristiano non cerca il martirio fine a sé stesso, perché ama la vita, non la disprezza. La vita è un dono di Dio e un discepolo di Cristo non cerca il martirio come autoimmolazione e nemmeno come segno di una santità eroica, però è anche vero che di fronte all’esplicita richiesta di rinnegare la propria fede con parole o con azioni contrarie all’amore per il Vangelo, può giungere ad offrire la vita fino a morire, sull’esempio del suo Signore.

La storia anche recente ci insegna di persone che con una semplicità e una libertà disarmanti accettano di corrispondere non tanto a un comandamento, a un precetto, ma a un amore più grande che è l’appartenere a quel Signore che ha donato la vita per tutti per dire con lui che la vita è più forte della morte, che l’amore è più grande dell’odio.

Sono persone che generosamente rifuggono ogni vigliaccheria, che anche di fronte alla morte restano fedeli a quell’amore che fa dire che solo chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. E questo è un monito silenzioso per tutti noi, sempre pronti a mutare atteggiamenti e opinioni in nome del più squallido opportunismo.

Di fronte a un esempio tanto grande di amore, in settimana abbiamo avuto anche esempi del «non amore». Chi di noi non ha visto le immagini dei corpi di immigrati che hanno trovato «asilo» nel cimitero blu del cosiddetto mare nostrum. Eppure sono trascorsi solo pochi mesi da quando in questa nostra chiesa abbiamo pregato insieme cristiani e musulmani con numerosi uomini e donne di buona volontà, abbiamo pregato davanti alla croce fatta con il legno dei barconi, e oggi siamo ancora qui a ricordare sguardi perduti nelle onde, a piangere corpi dissolti nelle alghe e nel silenzio. E tra le tante domande che mi sono posto, ho provato a chiedermi: ma costoro avranno saputo di sicuro che altri prima di loro avevano intrapreso questo viaggio e che avevano perso la vita. Perché allora rischiare tanto?

E’ sufficiente andare alla Stazione Centrale e incontrare i giovani profughi siriani, uomini, donne e bambini per capire che quando non si ha più nulla da perdere, si tenta l’impossibile. A che vale una vita senza dignità, senza lavoro, senza speranza? Contro la disperazione la morte degli altri non serve a niente. C’è qualcosa in loro che fa dire: «Io ci riuscirò». E così hanno attraversato Paesi, montagne e mari e ora molti di loro stanno lì nel cimitero blu, come oggetti rimasti su un’imbarcazione naufragata.

E intanto certi politici urlano al lupo, seminano paura e incolpano gli immigrati di tutti i mali. Sono sempre numerosi quelli che sfruttano le sventure degli immigrati per fare propaganda. Certi intellettuali sono convinti che l’identità europea sia minacciata dal multiculturalismo, che l’islam sia la peggiore delle religioni e così l’odio e la paura si alleano contro i nuovi «dannati della terra».

Eppure se c’è una sforzo che con amore e per amore ci è chiesto è quello di non far naufragare l’Europa nel suo mare trasformato nelle acque dell’Ade. «Perché l’Europa non esisterebbe se il mare non fosse stato attraversato. Senza Enea, come racconta il mito, non ci sarebbe Roma. Se Giona non fosse stato restituito dal ventre della balena, la profezia della misericordia divina sarebbe rimasta sepolta nel mare. Se Paolo non si fosse salvato dal naufragio a Malta, in Europa ci sarebbero ebrei, ma non cristiani, e se Pietro fosse annegato prima di toccare terra in Puglia, non ci sarebbe la Chiesa di Roma. Se i monaci di Gregorio avessero fatto naufragio nella Manica, agli Angli non sarebbe stato annunciato il Vangelo e i popoli del Nord Europa non sarebbero stati convertiti.

Poiché invece tutto questo è avvenuto, il mondo è cambiato. Chiudendo oggi le porte del mare, l’Europa pretende e si illude che il mondo non cambi più. Che ognuno resti a casa sua, ognuno si tenga e spenda il suo denaro, ognuno si tenga per sé la cittadinanza come una rapina. La cittadinanza è l’ultima vera discriminazione rimasta: essa dice che i diritti dell’uomo sono innati, ma è solo il cittadino che ne può godere e solo a lui sono riconosciuti. Il Vangelo è rovesciato: ama il cittadino, non farti prossimo allo straniero. E non ci si rende conto che in questo modo anche il cittadino è perduto» (R. La Valle).

A noi non viene chiesto il martirio per amore di Gesù, ma nello sfogliare quel fiore che è la nostra vita, ci viene chiesto di amare di un amore più responsabile, con una disponibilità almeno a far sì che di fronte alle sfide del nostro tempo non ci rinchiudiamo nel nostro privato, o ancor peggio, in una religiosità formale fatta di devozioni ma col cuore indurito e ci impegniamo a costruire un’Europa solidale e civile.

Preghiamo il Signore perché nelle nostre chiese si rinnovi quello che accadde a Cesarea quando (v.44) Lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E in quella casa ad ascoltare la Parola c’erano migranti come la famiglia di Cornelio. Lo Spirito d’amore ci liberi dalla legge degli istinti e degli impulsi e ci faccia rispondere a tutte le domande dell’amore da cittadini responsabili.