GIOVEDI’ SANTO - ULTIMA CENA DEL SIGNORE - Mt 26, 17-75


(Gn 1,1-3,5.10; 1Cor 11, 20-34; Mt 26, 17-75)

Da un punto di vista umano quello che abbiamo ascoltato non è affatto una novità: la storia del mondo è piena di potenti che tramano e congiurano contro persone innocenti. La storia umana è intrisa di rinnegamenti e di tradimenti dove c’è sempre uno che alla fine paga per tutti. Al punto che potremmo dire che c’è anche qualcosa di noi nel racconto di Matteo.

Il brano che abbiamo ascoltato inizia con il tradimento di Giuda per concludersi con il rinnegamento di Pietro. La cornice del racconto evangelico è costituita dalle brutture dell’uomo, dalle cattiverie di cui non dobbiamo scandalizzarci perché ci riguardano: anche noi siamo capaci di tradimento e di rinnegamento.

Se ripensiamo alla nostra vita, per quanto lunga o corta essa sia, abbiamo di che vergognarci, ci sono cose in ciascuno di noi che appartengono a questo registro che ci fa dire con don Primo Mazzolari: Giuda sei proprio nostro fratello in questa comune miseria!

E se siamo onesti con noi stessi, ci possiamo ben ritrovare se non negli atteggiamenti di Giuda o di Pietro, almeno in quelli degli apostoli che si dileguano o anche nell’ipocrisia delle autorità religiose, perché questa sera è il processo religioso che domina, con questo balletto ironico e drammatico che dal bacio arriva fino alla sceneggiata del sacerdote che si strappa le vesti.

Al centro di questa cornice abbiamo i gesti di Gesù che sono i gesti della tradizione ebraica, sono i gesti della Pasqua, memoriale della liberazione dall’Egitto che proprio in questi giorni il popolo ebraico sta vivendo e celebrando secondo l’antico rito di Mosè.

Ma sono le parole di Gesù a gettare nuovi significati su quei gesti: il pane azzimo che viene spezzato per essere condiviso non è più solo la memoria della schiavitù spezzata. Il calice di vino non è più solo il segno della gioia della terra promessa e quindi dell’alleanza compiuta.

Le parole del Cristo sono di un’intensità unica: Questo è il mio corpo dato per voi. Questo è il mio sangue versato per voi.

Sono parole che dicono il significato che Gesù stesso dà a quanto sta accadendo e dicono come lui si prepara a vivere l’epilogo della sua vita: egli risponde alle brutture di cui è capace l’uomo, con il dono di sé. Vince l’odio di chi gli vuole male, con il bene.

Siamo messi dinnanzi a una logica di Dio che ha del paradossale, perché per un verso Gesù sembra subire il calcolo dell’uomo: è Giuda che lo consegna, sono i soldati che lo consegnano alle autorità religiose e poi queste alle autorità romane, le quali a loro volta – come ascolteremo domani – lo consegnano alla croce.

Ma in realtà, è Gesù che consegna se stesso affidando al segno del pane spezzato il significato di una vita che donandosi rompe e frantuma la logica della violenza e della prevaricazione, perché è con il dono di sé, con la consegna di se stesso fino ad essere spezzato come il pane, che l’uomo può avere futuro.

È Gesù che si consegna e nel segno del vino versato consegna a noi la via della risurrezione, perché è solo l’amore che si dona che risorge a vita nuova.

Ma oggi dobbiamo stare in questa consegna. Questa è l’ora in cui la vita ci chiede di non adeguarci alla mentalità diffusa che non risparmia nemmeno i discepoli del Signore. Perché per un verso noi continuiamo a spezzare il pane e ogni domenica ricordiamo i gesti e le parole di Gesù, ma poi ci risulta difficile essere pane spezzato nella vita di tutti i giorni. È difficile vincere il male con il bene.

Succede che facciamo preghiere, devozioni e pellegrinaggi e al tempo stesso siamo capaci di cattiverie inaudite.

Mi viene da pensare che forse proprio per questo, l’evangelista Giovanni ormai anziano, quando si rende conto che in alcune comunità l’eucaristia è ridotta a semplice ripetizione di parole e di gesti, dà loro una sferzata ricordando che la sera di pasqua Gesù compì un gesto che lo ha lasciato sconvolto, quando si mise a lavare i piedi ai discepoli.

Lui, il Maestro e Signore, ha compiuto il gesto dello schiavo. Addirittura si è posto un gradino sotto lo schiavo, perché nemmeno uno schiavo ebreo mai avrebbe lavato i piedi a un altro ebreo. Gesù «abbraccia gli uomini ai piedi, là dove poggia il peso e la statura di ognuno, i piedi che non portano corona» (Erri De Luca).

E proprio l’altro giorno mentre chiedevo ai nostri bambini chi di loro fosse disponibile per venire alla lavanda dei piedi del giovedì santo, uno tutto preoccupato ha reagito dicendomi così: Ma così sembri un servo!

La cosa mi preoccupa un po’, perché vuol dire che allora non riusciamo a dire con la vita che la Chiesa, come il suo Signore, è a servizio. Nelle parole di questo ragazzo cogliamo la misura della distanza che ci separa dal Signore: ma quale Chiesa proponiamo?

Ricorderete le parole del vescovo don Tonino Bello che amava dire che l’unica veste liturgica indossata da Gesù era il grembiule e che nessuno mai pensava di regalare ai preti novelli un oggetto più opportuno di quello!

Gesù ha voluto compiere questo gesto per la sua comunità, ha voluto lavare i piedi al gruppo dei discepoli, indicando loro il senso della sua vita, ma anche quello che nella Chiesa dovrebbe essere normale perché non sia omologata alle lotte di potere o allineata alle logiche mondane, infatti come scrive Giovanni Crisostomo: Se noi veniamo nutriti dall’Agnello, non possiamo poi vivere come lupi; se veniamo saziati dall’Agnello di Dio, non possiamo poi depredare come leoni.

Paolo per ben due volte ripete le parole di Gesù: «Fate questo in memoria di me». Che cos’è questo ? Fate questo, cioè cosa dobbiamo fare?

Il primo pensiero è quello di continuare a spezzare il pane, a celebrare l’eucaristia.

Ma non dobbiamo dimenticare quello che è successo dopo, alla coerenza di Gesù che si è lasciato spezzare come un pezzo di pane.

È con questa bellezza e fragilità che usciremo di qui: nutriti dalla bellezza della fragranza del pane e insieme consapevoli della fragilità di un pane che si spezza per dire l’amore e la misericordia del Padre.

La nostra città ha bisogno di questa bellezza dell’amore che si dona, dell’amore di Gesù che accoglie il bacio di Giuda e che rivolge uno sguardo di tenerezza a Pietro, nonostante tutto.

Anche a noi, come già a Giona, il Signore rinnova la parola che abbiamo udito all’inizio della prima lettura: «Alzati, va a Ninive la grande città»!

La nostra grande città ha sempre più bisogno che qualcuno le annunci il Vangelo della misericordia di Dio e per fare questo, concretamente, come scriveva papa Francesco: «Occorre amare la giustizia con la stessa sete di chi cammina nel deserto; preferire la ricchezza della povertà alla miseria cui conduce il benessere mondano; aprire il cuore alla tenerezza anziché addestrarlo alla prepotenza; cercare la pace più forte di ogni pacifismo; avere uno sguardo limpido che proviene da un cuore altrettanto puro, evitando di cadere nell’avida accumulazione dei beni».

Vivendo così, saremo memoria viva del Cristo e il Vangelo continuerà la sua corsa anche nella grande città.