V DI QUARESIMA o Domenica di Lazzaro - Gv 11, 1-53
Nel racconto di questa domenica si intrecciano sentimenti e pensieri a noi cari: l’affetto e l’amicizia, le lacrime e la compassione, la fiducia e il dispiacere… tutti temi che impastano quotidianamente la nostra vita e che prima o poi vanno a infrangersi sulla tomba o davanti alla lapide dove abbiamo deposto quello che resta di una vita vissuta insieme.
Ma davvero è questo quello che resta? Questo è il nostro destino? È così che Dio ci considera: polvere e nient’altro?
È evidente che il racconto è simbolico: Lazzaro siamo noi, la nostra umanità, la nostra precomprensione della vita e il grido di Gesù Vieni fuori! che attraversa la pietra sepolcrale, è rivolto anche a noi.
Vieni fuori! Se ci pensiamo bene è quello che si fa alla nascita: si vieni fuori dal grembo materno, si viene alla luce, al mondo.
Ed è lo stesso grido che mi ha fatto pensare al testo di una canzone che dà il titolo e accompagna una fiction di successo, Mare fuori. Succede così a quei ragazzi e a quelle ragazze che vivono la limitazione della loro libertà in carcere e coltivano la speranza grazie allo sguardo che attraversa le inferriate alle finestre e che vede il mare fuori dalle celle.
A me pare risuoni così anche il grido di Gesù: guarda il mare fuori, esci dal carcere in cui ti sei andato a cacciare, volgi lo sguardo oltre le sbarre, oltre le mura della prigione e le gabbie di una condizione che ti tiene prigioniero.
Tutta la nostra vita è un desiderio insaziabile di guardare fuori, di uscire dalle piccole o grandi schiavitù, dalle abitudini stanche, dalle paure e da una vita che sembra condannata a ripetere se stessa senza mai la gioia di sognare un futuro diverso.
Lascia il grembo, lascia il sepolcro alle spalle. E dove vai? Nella vita. Come sarà non lo sai. Così succede sempre: lasci quello che conosci, il grembo da dove vieni, la casa dove sei cresciuto, la città che hai abitato… e molti che sono qui hanno vissuto o stanno vivendo la condizione propria di chi lascia il terreno sicuro e conosciuto per inoltrarsi nell’inedito.
Così fino al grande passaggio, quando prendiamo congedo dal mondo, passaggio che esige una grande fede, come quella espressa da Marta al v.25 quando, dopo averlo rimproverato, dice a Gesù: So che mio fratello risorgerà nell’ultimo giorno. Ma è questa la nostra fede?
Si direbbe non precisamente, vista la risposta del Cristo che dice: Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me anche se muore vivrà.
Facciamo attenzione a due elementi. Il primo è il cambiamento del tempo verbale. Marta dice con fede: So che risusciterà nell’ultimo giorno, evocando col verbo al futuro una prospettiva lontana. Gesù replica Io sono sostituendo il futuro con il presente. Qui si tratta di sapere chi è Dio: un Dio del futuro, fuori dalla realtà, di cui non si sa se agisca o non agisca. Oppure un Dio del ‘qui e ora’, presente e più vivo della morte?
In fondo questo è il problema della realtà di Dio: è reale ora o lo sarà soltanto dopo, quando sarà tardi, troppo tardi? Gesù è esplicito: Io sono la risurrezione, qui adesso, ora. Cosa significa?
Ecco il secondo elemento cui prestare attenzione, è il passaggio dal credere ‘che’ al credere ‘in’. Marta appunto dice di credere ‘che’ risusciterà nell’ultimo giorno. E Gesù le risponde Io sono risurrezione e vita. Si passa dunque da una fede come sapere a una fede come coinvolgimento con la persona di Gesù, alla comunione con lui, ed è in questa relazione che comprendiamo il mistero della vita che attraversa la morte.
Si parla di ri-surrezione, vale a dire di chi si ri-alza, ri-solleva, ri-nasce… dove il prefisso sta a riconoscere non una ripetizione, ma una continuità tra la condizione precedente di morte e quella che viene dopo, di vita.
Giovanni in tutto il suo Vangelo parla abbondantemente di questa vita come di vita eterna. Basti pensare all’incontro con Nicodemo (3,16: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna), con la Samaritana (4,14: L’acqua che io gli darò diventerà una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna). Ancora nella sinagoga di Cafarnao, cap.6,58: Io sono il pane vivo… se uno mangia di questo pane vivrà in eterno…
Tutti testi che ci invitano a non situare la risurrezione sul piano di una vita dopo la morte fisica e tantomeno a non considerarla come una ricompensa per i giusti, c’è una vita che non è solo quella biologica (bios), questa muore e si dissolve nella polvere, c’è una vita (zōé) che non muore. Mai. Giovanni ha imparato da Gesù a non opporre vita e morte fisica, ma a riconoscere che c’è una vita piena di Dio, una vita d’amore, di perdono e di libertà e c’è una vita chiusa, bloccata, ripiegata su di sé, che è già morta.
Io sono la risurrezione e la vita, dice Gesù, ovvero mette la risurrezione prima della vita. Non è come noi pensiamo di solito: prima viene la vita, poi la morte e infine la risurrezione. Nel senso che la vita è lo svolgimento della risurrezione, e non la risurrezione l’epilogo della vita.
C’è un’ultima considerazione che il Vangelo mi sollecita: non poteva forse Gesù far sì che le bende di Lazzaro si lacerassero da sole? Non poteva lui con la sua potenza ribaltare la pietra all’imboccatura del sepolcro? Che motivo c’è di coinvolgerci e comandarci: Togliete la pietra! Liberatelo e lasciatelo andare!
C’è una vita che attende di essere liberata, di fiorire, di germogliare… quante vite sono oppresse, chiuse… e hanno bisogno di noi, di qualcuno che tolga i macigni sui cuori e sulle mente, qualcuno che sleghi le bende che impediscono di camminare, di vedere un futuro.
La realtà ci dice che molte volte invece non siamo all’altezza delle provocazioni della storia e anziché slegare le persone, le inchiodiamo nelle loro prigioni e con le nostre politiche facciamo di tutto per ricacciarle in galera, perfino le donne con i bambini. Quello del sistema carcerario è un esempio concreto che ci provoca perché impariamo con intelligenza e coraggio a tradurre i valori evangelici in processi di vita e a non rimanere semplicemente soggiogati all’idea della punizione, se non addirittura della vendetta.
Anche a ciascuno di noi il Signore grida oggi: Vieni fuori! Guarda il mare fuori dalla tua prigione, c’è vita fuori dalle gabbie mentali in cui ti sei rinchiuso, c’è una vita che vale la pena di vivere nel dono, nell’accoglienza, nel rispetto, nella condivisione. Questa è la vita che non muore.
Vieni fuori! È ciò che si fa nascendo. Infatti chi diventa cristiano, chi diventa discepolo di Cristo, fa l’esperienza di una nuova nascita di cui il battesimo è il segno sacramentale. Si esce dal sepolcro del passato, si lascia alle spalle la tomba dell’individualismo, si risuscita per vivere.
È già ed è sempre Pasqua.
(Gv 11,1-53)