IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 51-59


Accogliamo l’invito che ci viene dal libro dei Proverbi quando dice: Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate dritti per la via dell’intelligenza.

È la Sapienza che parla e che si rivolge a chi è privo di senno! La sapienza per l’uomo biblico è necessaria a tal punto che l’autore biblico non esita a paragonarla al pane e al vino, cioè un dono e un nutrimento necessario per vivere, alimento quotidiano. Se tu rispetti la Torah, se osservi la Legge, se ti mantieni fedele all’alleanza, allora ti nutri della sapienza che viene da Dio!

Una bella metafora per indicare la sapienza. Noi avremmo immaginato altro, qualcosa di astratto, teorico: la metafora del pane e del vino dice invece che la sapienza è un dono di Dio, ma è un dono che va mangiato e bevuto, ma metabolizzato, va assunto e interiorizzato.

Quando Giovanni nel brano tratto dal cap.6 ricorda le parole di Gesù che dice di essere il pane di vita e per la vita, il cibo che deve essere mangiato… a noi viene da pensare che stia parlando del sacramento dell’Eucaristia, che si riferisca al pane e al vino come segni sacramentali. Ma per Giovanni non era proprio così.

L’evangelista anzi proprio perché conosce bene la Scrittura e conosce anche il pericolo dei discepoli del suo tempo che rischiano di “cosificare” i sacramenti, di trattarli con superstizione come se fossero riti magici… sottolinea molto questo verbo “mangiare”, masticare. Il sostantivo “pane” ricorre 5 volte in questi versetti, mentre “mangiare” e “bere” ricorrono rispettivamente 7 e 3 volte: 10 ricorrenze dei verbi, il doppio. Anche le parole hanno il loro peso: quello che conta per Giovanni è metabolizzare la sapienza di Gesù, assumerla e non solo celebrarla!

Al punto che più avanti al cap. 13 quando gli altri evangelisti raccontano della loro ultima Cena con Gesù, Giovanni racconta di un gesto sconvolgente: Gesù si mette a lavare i piedi ai suoi discepoli ad indicare in maniera pragmatica cosa significhi mangiare e bere del Cristo, come comporti far diventare prassi di vita e di scelte, l’incontro con lui.

Giovanni dice che la sapienza annunciata nella Scrittura ora è una persona, è Gesù. Gesù e il suo modo di vivere sono la sapienza necessaria come il pane per vivere, indispensabile come il vino sulla tavola… anzi è una sapienza che va oltre la morte, è vita per sempre.

Allora penso che occorra anzitutto riconoscere come il nostro linguaggio liturgico anziché trasmettere questa sapienza, torni a veicolare immagini di Dio ereditate da secoli di religiosità e che parlano di un Dio al quale domandare di “guardare propizio… di accettare con benevolenza e di gradire con bontà i sacrifici…”, dunque un Dio da quietare e soddisfare con i nostri doni, i nostri sacrifici.

Immagini sacrificali di Dio che ricorrono oltremodo predominante e quasi ossessivo nelle orazioni e nelle preghiere liturgiche. Immagini non più credibili del divino, debitrici di una religione sacrificale perlopiù pagana e non della rivelazione del volto di Dio Padre fatta da Gesù.

Non possiamo pertanto esimerci dal domandarci se non rischiano di rappresentare oggi un ostacolo all’evangelizzazione quelle immagini di Dio, ancora presenti nella liturgia, legate alla teologia della soddisfazione, dell’espiazione, della placatio di un Dio offeso da noi peccatori.

«La buona salute della fede cristiana è legata non a un rigetto del rito, ma a una sua gestione critica, e ciò suppone che esso sia costantemente evangelizzato. È a mio parere decisivo, a questo riguardo, ricordare che il cuore della liturgia e dei sacramenti cristiani non è il rito, bensì la parola di Dio: è sempre questa parola che in essi avviene, ma vi avviene sotto forma rituale» (Louis-Marie Chauvet).

Ci sono liturgie sane e liturgie che non lo sono. Dovremmo interrogarci continuamente su come far entrare nella liturgia la dimensione degli affetti e l’azione in favore della fragilità e della sofferenza delle creature. Una liturgia anaffettiva non è sana. Dio non è presente dove è assente il cuore.

Solo una liturgia che sia sana può essere a sua volta sanante. Solo una celebrazione che non sia un luogo di estraneità o di indifferenza reciproca, che non colpevolizzi mai nessuno, mai. Colpevolizzarsi è dire: ho sbagliato tutto, non ce la farò mai, non valgo niente, nessuno mi vuol bene perché non lo merito…

Solo una liturgia sana può essere sanante, può lenire le ferite del cuore. La liturgia è sana quando si domanda quale sia il bisogno dell’assemblea, di che cosa ha bisogno davvero questa gente, questa donna ferita, questo bambino. Partire dai bisogni dell’uomo, come faceva Gesù.

Non è moralista il vangelo. Siamo noi che l’abbiamo moralizzato. Padre Vannucci affermava: il vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione.

Celebrare la liturgia è un dono di Dio per andare incontro ai bisogni dell’uomo, non per celebrare se stesso. Siamo stanchi di tanto linguaggio liturgico lamentoso, sempre volto a chiedere pietà e perdono, centrato sul peccato da assolvere o da scontare: per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa… Anche perché trasmette un’immagine di Dio che trovo inaccettabile: puntiglioso, pericoloso, ragionieristicamente attento a ogni minima sbavatura.

Diceva bene René Girard: la secolarizzazione è l’effettiva realizzazione del cristianesimo quale religione non sacrificale!

La nostra relazione con Dio non la possiamo ridurre e disidratare al semplice paradigma colpa/perdono.

La sapienza di Gesù illumina il volto di un Dio innamorato, seminatore di bellezza, primavera del cosmo, accensione del cuore, che rialza la vita e la fa fiorire. Gesù ci ha detto di chiamare Dio “Abba”, papà; un Dio di casa, vicino di tavola, familiare. Lo chiamo Padre e poi gli chiedo continuamente pietà!?

Che amore, che fiducia è quella di un figlio che entra in casa e la sua prima parola è chiedere pietà al proprio padre, alla propria madre? E questo noi facciamo appena entriamo in chiesa. Dimentichiamo che Dio non è venuto uomo tra gli uomini solo a portare il perdono dei peccati, è venuto a portare se stesso come pane di vita e per la vita.

Dio perdona con una carezza, non con un decreto (papa Francesco). Lo ricordava il grande teologo J. B. Metz: Il primo sguardo di Gesù nel Vangelo non si posa mai sul peccato di una persona, ma sulla sua povertà e sulla sua sofferenza, per soccorrerla.

Allora come non perdere il dono di Dio? come far entrare la tenerezza di Dio nella liturgia? L’efficacia della liturgia sta nella sua capacità di incidere il cuore, toccandolo attraverso la domanda di soccorso dell’uomo e con il sentire che Dio viene. Dio è vicino, con amore.

Leggendo il Nuovo Testamento si resta sorpresi che i termini “povero, poveri”, ricorrano più spesso del termine peccatori. Nei vangeli, il campo semantico della povertà, della debolezza, della sofferenza precede ed è molto più ricorrente del campo semantico del peccato. Però se i poveri riempiono la bibbia, non è vero che abitino le nostre liturgie. I poveri riempiono la storia ma non il cuore e le preghiere della Chiesa!

Se vogliamo celebrare il dono di Dio in liturgie che siano davvero umane, dobbiamo trovare i modi per far entrare nelle assemblee le piaghe e la sofferenza dell’uomo e del mondo. Un rito che non sia semplice consumo di sacro, ma spazio per l’umanità reale.

Non possiamo in chiesa cantare gli inni e poi disinteressarci delle macerie della storia… Una liturgia così è sterile, noiosa. Sono sempre più convinto che le chiese si svuotino più per noia e stanchezza che non per contestazione di dottrina o accuse alle istituzioni; non per i drammi della vita o per il rifiuto di Dio, ma per noia.

Dio può morire di noia nelle nostre chiese. Ma anche noi possiamo finire per distaccarcene perché, come diceva Bonhoeffer, «Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano».

Mangiamo e beviamo della sapienza di Cristo per crescere in umanità.

(Pro  9,1-6; Gv 6, 51-59)