V DI AVVENTO - Gv 1, 19-27a. 15c. 27b-28
Non capita spesso che un personaggio con i riflettori puntati su di sé, faccia di tutto per dirottarli su un altro. Anzi, la legge dello spettacolo esige che per tenere l’audience uno sappia sempre calcare la scena da protagonista. Quando qualcun altro insidia il primato, devi darti da fare. Non si può essere secondi a nessuno!
Se guardiamo le cose dal punto di vista della nostra cultura dello spettacolo, Giovanni il Battista è l’antiprotagonista per eccellenza (Gv 1, 19-28). Aveva in pugno Gerusalemme, con la sua predicazione ruvida ma efficace, faceva tremare gli scranni del potere e sbatteva in faccia ai devoti le loro malefatte più o meno nascoste… eppure tutti costoro andavano volentieri ad ascoltarlo, fino a quando ad un certo punto si rendono conto che il fenomeno si fa ingombrante.
Così gli mandano una commissione d’inchiesta, fatta di sacerdoti e leviti che lo incalzano: Tu, chi sei? Domanda delle domande, è la stessa questione, ricordate, rivolta al Cristo che guarisce di sabato. Ma tu chi sei? E il Battista: «Non sono il Cristo, non sono il messia, non sono l’Unto del Signore! Ma, nemmeno Elia…». Gesù in realtà lo considera tale, ma lui invece si nega anche come Elia e si nega pure come profeta. Per tre volte nega: «No, sono nessuno». Par di sentire Ulisse che alla domanda di Polifemo: «Dimmi il tuo nome», rispose dicendo: «Mi chiamo “Nessuno”» e questo gli permetterà tra l’altro di salvarsi!
Non avviene proprio così per Giovanni, il quale tra l’altro non è preoccupato di salvarsi, ma dicendo di non essere nessuno di coloro in cui vorrebbero identificarlo, sposta l’attenzione su Uno che sta in mezzo a voi e che non conoscete!
I due coetanei, Giovanni e Gesù, entrano pressoché simultaneamente sulla scena della storia di Israele. Sono due giovani trentenni, di cui uno battezza e predica, l’altro vive nel silenzio di Nazaret senza gesti né parole eclatanti e per questo Giovanni lo indica come uno che non viene riconosciuto, anzi sarà proprio lo stesso Giovanni, dopo averlo battezzato, a indicare Gesù come l’agnello di Dio, colui che porta su di sé il peccato del mondo.
Questa è la sua ragione di vivere, questa è la sua identità: chi sono io? Non sono un protagonista in cerca di palcoscenico, sono qui a indicarvi i segni di colui che è già presente in mezzo a voi ma che voi non sapete vedere perché vive in modo nascosto, discreto. Come un seme nascosto nel terreno – dirà Gesù nelle parabole – che proprio quando sembra non accadere nulla, perché tutto avviene non in superficie ma sottoterra, sprigiona la sua potenza di vita.
Ecco un primo messaggio per noi: la parola di Dio ci suggerisce la necessità di avere occhi che sanno vedere, oltre la zolla della terra, l’energia del seme che vuole erompere alla luce. Giovanni ci insegna uno sguardo intenso per vedere nella ferialità di Nazaret, nella vita quotidiana di un uomo, il dono di Dio, la promessa di vita. Occorre avere uno sguardo attento e occhi perspicaci per riconoscere i segni discreti della sua presenza nascosta tra di noi.
Proprio in una terra arida, che appare priva di vita, possiamo riconoscere il germogliare di un nuovo inizio. La testimonianza di Giovanni ci educa così a riconoscere la presenza misteriosa, ma feconda, del Signore anche nell’aridità del tempo che viviamo.
Che è lo sguardo del profeta Isaia quando afferma nella prima lettura (11, 1-10): Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse. Ci vuole una capacità fuori dall’ordinario per saper vedere un germoglio nascere da un tronco! Ma è così: Dio viene nella storia del mondo come un germoglio, dunque come un debole inizio, fragile, tenero, piccolo, quasi insignificante.
In questo tempo faticoso, arrabbiato e incerto possiamo chiedere al Signore lo spirito di sapienza e di intelligenza come lo ha dato a Salomone, oppure lo spirito di consiglio e di fortezza che ha dato a Davide e ancora lo spirito di conoscenza e di timore di Mosè e di Abramo… per saper vedere il germoglio della speranza e del futuro. È con questo spirito che Isaia intravvede un’epoca nuova descritta come un paradiso: Il lupo dimorerà con l’agnello; il leopardo si sdraierà col capretto, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera… Utopia? Probabilmente è utopia se consideriamo le nostre forze e capacità.
Utopia è sognare a occhi aperti che il lupo possa dimorare con l’agnello, che una mucca e l’orsa pascolino insieme… è utopia perché già facciamo fatica ad andare d’accordo in famiglia, in ufficio, tra cristiani. Immaginiamo cosa possa accadere nel mondo!
È utopia perché non camminiamo sui sentieri tracciati da Isaia e di fatto, per dirla con la prima lettura, giudichiamo secondo le apparenze, prendiamo decisioni per sentito dire, non trattiamo con giustizia i poveri… Giustizia e fedeltà non sono virtù che qualcuno ci insegni a coltivare nella vita personale e tantomeno in quella pubblica…
Eppure un profeta del nostro tempo, come Giorgio La Pira negli anni ‘60-‘70 parlava del sentiero di Isaia come della prospettiva per il futuro del mondo e con grande lucidità diceva che se i responsabili che guidano il mondo non hanno chiara la visione delle «frontiere» verso cui la storia è avviata, se questa visione manca, costoro sono guide cieche e conducono i popoli verso l’abisso (Lc 6, 39).
E noi oggi proprio per la mancanza di utopia, di una frontiera di senso e di orizzonte assistiamo al collasso della società, di un sistema economico e politico.
Se ai tempi di La Pira, in pieno clima di guerra fredda, il rischio nucleare era di una distruzione totale, tuttavia l’utopia della pace permise di convertire le spese di guerra in spese di sviluppo e riuscì a orientare la storia verso un passaggio diverso… come non credere che anche oggi sia possibile raddrizzare il sentiero di una storia come la nostra che è segnato dai poteri economici-finanziari che con l’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria vanno riducendo drasticamente la sovranità degli stati e la democrazia?
Il 10 dicembre 1948 fu firmata a Parigi la Dichiarazione universale dei diritti umani. Il suo primo articolo recita così: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità».
È una visione utopica quella di una fraternità umana? Forse sì, tant’è che già dai tempi della rivoluzione francese è stata la prima delle tre grandi idee rivoluzionari (liberté, égalité, fraternité) ad essere dimenticata. Ma è una visione necessaria per la vita di ogni giorno, che dà senso ai piccoli gesti e alle singole scelte che siamo chiamati a compiere.
Camminiamo sul sentiero di Isaia quando usciamo dal nostro particolare, dal privatistico e ci interessiamo di come va il mondo, di dove sta camminando la storia; quando ci informiamo con cura e non ci accontentiamo di subire un’informazione preconfezionata; quando guardiamo con curiosità le diversità, le minoranze, i più piccoli; quando non giudichiamo secondo le apparenze; quando non prendiamo decisioni per sentito dire, perché così fan tutti; quando desideriamo la fine di ogni discriminazione di razza, di ideologia, di religione e – per dirla con La Pira – «la fioritura di ognuna di esse di quel pluralismo – di quei mille fiori! – che rende libera, sincera e lieta la coscienza degli uomini, e rende civili le nazioni» (Parigi, 15 settembre 1967).
Impariamo dal Battista a saper vedere i segni della venuta del Cristo nelle forme della fraternità nella vita di ogni giorno, perché l’utopia dell’umanità promessa ci veda camminare insieme sul sentiero tracciato da Isaia.