V DOPO PENTECOSTE - Lc 13, 23-29
Dopo la creazione, dopo Adamo ed Eva e dopo Caino e Abele, la storia biblica, nella seconda metà del cap. 18 della Genesi, ci fa incontrare Abramo, nostro padre nella fede. L’atteggiamento di Abramo è curioso perché mentre si narra dell’imminente distruzione della città di Sodoma per la malvagità che vi dilaga, Abramo sembra quasi contestare a Dio il diritto di distruggere quella città perché insieme agli ingiusti potrebbero perire anche dei giusti!
Eppure, dice il Signore, Il grido di Sodoma e Gomorra è troppo grande! Che cos’è questo grido che arriva fino a Dio? Il grido del peccato? È il grido delle vittime, il grido che l’uomo non ascolta, ma Dio sì!
I rabbini hanno interpretato questo grido come il grido di una ragazza che era stata torturata a morte per aver offerto da mangiare a un povero. Il midrash specifica che si tratta di una ragazza condannata a morte perché, unica nella città di Sodoma, ebbe il coraggio di accogliere uno straniero portandogli del pane e dell’acqua.
Poiché aveva violato le leggi in vigore (le leggi dell’interesse) la condussero fuori, la spalmarono di miele, dalla testa ai piedi e la gettarono in mezzo a migliaia di api. La poveretta urlava in modo straziante, ma nessuno fu mosso a compassione.
Il grido di dolore salì fino al cielo e il Signore fu molto addolorato per la crudeltà di quella gente a cui non mancava niente eppure si comportava in quel modo! Infatti tanto più grande era la loro ricchezza e tanto più aumentava il loro egoismo che arrivava perfino a tagliare gli alberi da frutta per evitare che gli uccelli ne potessero mangiare.
Stando al midrash con questa ragazza muore dunque anche l’ultimo giusto di Sodoma e con lei sale a Dio l’ultimo grido!
Abramo che finora nei racconti di Genesi è stato prevalentemente in silenzio, ha parlato ben poco, quindi non si può dire che sia stato un profeta in parole, che abbia lasciato discorsi particolari… Abramo è un grande silenzioso e proprio per questo si sente responsabile del grido dei giusti che sale da Sodoma e da Gomorra.
Abramo ascolta il grido dei giusti, così come si è reso sensibile nell’ascoltare Dio. Possiamo dire che se Abramo può essere così ardito, addirittura apparentemente mercantile nelle sue preghiere, è perché prima di tutto è un ascoltatore della parola; cioè un uomo che ha buttato la sua vita sulla parola e vive di essa.
Ed è per noi esemplare che Abramo, uditore della parola, obbediente al silenzio per ascoltare Dio, sappia ascoltare il grido del giusto e si senta talmente responsabile degli altri che non esita a contrattare con l’Eterno perché abbia misericordia.
Anzitutto non si tratta semplicemente di separare il giusto dall’ingiusto, ma di fare più conto su alcuni giusti che su una moltitudine di peccatori e salvare così una città. È un’idea di giustizia che non separa semplicemente per dare a ciascuno il suo, mettere i peccatori da una parte e i giusti dall’altra, ma una giustizia che cerca di salvare tutti e per questo si serve dei giusti e fa leva su di loro.
Perché mai il patriarca Abramo non ha avuto il coraggio di continuare ad implorare anche per un numero inferiore di giusti e si è fermato a dieci?
Il numero dieci è il numero minimo perché si dia una comunità, forse voleva anche solo salvare la famiglia di Lot che poteva aggirarsi intorno a quel numero, non sappiamo con certezza, certo è che sarebbe stato bello se Abramo avesse continuato a sfidare Dio, scendendo anche al di sotto nel numero di dieci giusti, per vedere se Dio avrebbe salvato Sodoma anche se vi avesse trovato un solo giusto.
E poi è struggente la determinazione con cui Abramo si prende a cuore la sorte degli abitanti di Sodoma e di Gomorra ergendosi di fronte a Dio quasi a piegarne la volontà alla misericordia e al perdono. Abramo non si abbandona al lamento per i valori perduti, non si concede un’analisi psicosociale della decadenza, Abramo prega. La sua preghiera ha a cuore il destino di una città, di un paese, dell’umanità stessa.
Ma, ci domandiamo, non è questo un atteggiamento sterile? Non è un modo in cui si eludono i problemi, li si scavalca, per così dire, senza risolverli? È davvero la preghiera l’unica cosa che poteva fare Abramo? Quante volte abbiamo pensato che pregare fosse una facile evasione dalle nostre responsabilità?
Qui pregare non è evasione, fuga dalla realtà, dalla responsabilità, qui veramente la preghiera è lotta. Ed è teologia, cioè un nuovo modo di conoscere Dio. Lotta e preghiera: Abramo si butta nella preghiera lottando per capire il disegno di Dio e per conoscere il problema di fondo della giustizia di Dio verso l’uomo. La cosa straordinaria è che Abramo così lotta per una nuova conoscenza di Dio, del Dio che vuole salvare l’uomo, di quel Dio che vuole talmente bene all’umanità che per dieci è disposto a perdonare tutti.
È una preghiera quella di Abramo che suppone un affetto profondissimo. Non è la semplice preghiera che qualche volta facciamo stancamente per qualche intenzione: ascoltaci, Signore! e che ci coinvolge fino a un certo punto. La preghiera fatta per coloro di cui avvertiamo la responsabilità, di cui portiamo il peso, con cui partecipiamo a un rischio è quella che ci porta a conoscere il disegno di Dio. Perché se non conosciamo questo disegno come possiamo chiedere che si adempia?
Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Scriveva il card. Martini: «Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. […] Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione».
Intercedere non è dunque qualcuno da lontano che prega genericamente «per …», bensì qualcuno che si mette in mezzo, che entra nel cuore della situazione, che stende le braccia a destra e a sinistra per unire e pacificare.
Non è questo il gesto di Gesù sulla croce, l’atteggiamento del Crocifisso, che è l’unico giusto che l’Eterno trova sulla terra?
Egli è colui che è venuto per porsi nel mezzo di una situazione insanabile, di una inimicizia ormai irrimediabile, nel mezzo di un conflitto senza soluzione umana. Gesù ha potuto mettersi nel mezzo perché era solidale con le due parti in conflitto, anzi i due elementi in conflitto coincidevano in lui: l’uomo e Dio.
È questa la porta stretta attraverso la quale Gesù ci invita a sforzarci di passare. Una porta stretta perché larga come la croce, segno esemplare dell’intercessione dell’unico giusto per il quale anche noi possiamo essere salvati.
Ed è per mezzo di Gesù che anche noi possiamo intercedere per la nostra umanità, per la giustizia, per il nostro mondo malato!
Intercedere non è pregare per qualcuno, affidandolo magicamente al Signore perché provveda lui, ma è stare di fronte a questa persona, a questa situazione così come la vede il Signore, che in Gesù si è fatto carico anche dei nostri errori, dei nostri peccati.
Naturalmente un simile atteggiamento non calpesta affatto le esigenze della giustizia. Non posso mai mettere sullo stesso piano il bene e il male, gli assassini e le vittime… Però, se una preghiera intercede perché il Signore soccorra l’uno e abbatta l’altro, ignora ancora il bisogno di salvezza di chi è eventualmente nel torto, di chi ha scelto contro Dio e contro il fratello, non gli mette la mano sulla spalla … la sua non è una preghiera di intercessione.
Gesù non maledice chi lo crocifigge, ma muore anche per lui dicendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno » (Le 23,34).
Ciascuno di noi oggi porta al Signore tutti coloro per i quali vuole pregare e intercedere, ma come Abramo non preghiamo solo per i nostri cari, per i nostri motivi personali e famigliari, chiediamo al Signore, di passare per la porta stretta del suo amore per innalzare il nostro grido di intercessione per questa nostra umanità, per tutti coloro che credono di mandare avanti il mondo con la violenza, con l’odio e con la paura.
(Gen 18, 16-23; Lc 13, 23-29)