I DOMENICA DOPO PENTECOSTE - Solennità della Santissima Trinità - Gv 14, 21-26


La parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita a celebrare la festa della Trinità non quale sforzo mentale per capire di più il mistero di Dio, come se dovessimo in qualche modo raggiungere una maggior comprensione intellettuale, perché con il racconto dell’episodio di Abramo e dei suoi ospiti alle querce di Mamre e con le parole stesse di Gesù che risponde a una domanda dei discepoli: noi prenderemo dimora presso di lui, ci viene chiesto un atteggiamento molto diverso, forse apparentemente più passivo, ma che parla di accoglienza e di ospitalità.

Siamo invitati a vivere la bellezza e la sorpresa dell’ospitalità di un Dio che si presenta nella nostra vita come straniero, e già questo ci sorprende perché affermiamo  spesso che Dio è vicino, che il volto di Gesù ci dona il volto di Dio, che Dio si è fatto uomo … e ora la parola di Dio e la fede della Chiesa ci dicono: ma Dio è sempre come un ospite da accogliere, perché per quanto ti possa essere famigliare, l’Eterno è anche straniero, Dio ci viene incontro in maniera diversa dalle nostre categorie mentali, dai nostri atteggiamenti e dalle nostre aspettative.

Dio è come uno straniero che cerca ospitalità, che – per dirla con le parole del Vangelo – vuole «prendere dimora», chiede di essere accolto. Davvero il volto di Dio Padre, Figlio e Spirito è per noi un volto straniero da accogliere.

Per cui questa nostra fede che ci fa pregare dicendo insieme: Padre nostro … al tempo stesso ci fa incontrare il volto misterioso di Dio che non comprendiamo, che non riusciamo a contenere nelle nostre categorie di pensiero e di vita.

Dio ci è noto, ci è famigliare, ma al tempo stesso ci è straniero nel senso che non finiamo mai di conoscerlo.

Pensiamo a come Gesù che pure parlava ad un popolo molto più religioso di noi, più conoscitore della Scrittura di noi, e forse anche più ricco di fede di noi, eppure andando a sedersi a mensa con i peccatori, andando ad alloggiare presso di loro fino a diventare amico delle prostitute e dei pubblicani, ha rivelato un volto per così dire sorprendente di Dio.

Perché il Signore è così, viene proprio come forestiero alla tua tenda, nell’ora più calda del giorno, quando vorresti startene tranquillo a goderti la siesta o preso dai tuoi affari. Dio arriva come ospite inatteso.

Noi che siamo distanti anni luce dalla sensibilità di Abramo e della cultura dell’ospitalità, non siamo più abituati a riconoscere la sacralità dell’ospite.

Questo succede anche a causa del carattere consumistico della nostra società: cosa facciamo di gratuito ormai? Cosa riusciamo a strappare dalla logica dell’opportunità, dell’occasione, del vantaggio?

Se poi mettiamo sul piatto la consistente e stabile presenza degli stranieri a differenza dei flussi migratori di un tempo … perdiamo la disponibilità a riconoscere nell’ospite inatteso un dono, piuttosto prevalgono in noi sentimenti di paura, di isolamento e di chiusura all’altro, magari mascherandoli della custodia della propria identità.

Facendo così finiamo per non praticare l’ospitalità nemmeno nei confronti di chi ci abita accanto: le nostre case assomigliano sempre più a fortezze protette da serrature, porte cancelli, sistemi di allarme, telecamere, recinti e muri e siamo diventati ormai progressivamente succubi di una mentalità che si restringe e si chiude a ciò che appare come altro e sconosciuto.

Tutt’al più consideriamo di praticare l’ospitalità con coloro che invitiamo in casa nostra: ma l’invitato non è un ospite, né le attenzioni usate verso di lui sono ospitalità, perché l’altro, il vero altro, non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra, bensì colui che giunge a noi portato semplicemente dalla corrente della vita, della storia.

L’altro è colui che sta davanti a noi come una presenza che chiede di essere accolta nella sua irriducibile diversità, poco importa se appartiene a un’altra etnia, a un’altra fede, a un’altra cultura: è un essere umano, come me e come io sono ospite di questo mondo, l’altro è lui stesso ospite dell’umano «Non ha ancora incominciato a essere un vero uomo chi non ha vissuto la pietà per l’umanità ferita e svilita nell’altro» (Sequeri).

La Scrittura dice che Israele stesso è straniero: Mio padre era un arameo errante (Dt 26, 5), i nostri antenati erano aramei, ovvero stranieri, confessa l’ebreo che al tempio si presenta davanti a Dio.

Del resto lo stesso appellativo ‘ivrì (ebreo) è il nome con il quale gli ebrei si identificano in confronto ai non ebrei, è  il termine con cui Giona si presenta ai suoi compagni di navigazione: «sono ivrì, ebreo» (1,9), per indicare il popolo che “sta sull’altra riva” del fiume Eufrate, quindi forestiero rispetto all’impero assiro.

Ma proprio per questo essere forestiero agli altri popoli, Israele sperimenta di essere accolto e ospitato da Dio e diventare il suo popolo, e non dovrà mai dimenticare la propria condizione di estraneità.

Questo è un passaggio importante nella memoria della nostra umanità, perché faremo un passo decisivo nel giorno in cui lo straniero da hostis (nemico) diventerà hospes (ospite)… il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora forse sapremo anche accogliere il volto di Dio che non conosciamo.

Gesù consegnando il proprio testamento spirituale ai discepoli affida loro questa grande promessa: a chi vive della sua parola sarà dato di sperimentare il bene sommo, cioè la dimora di Dio in lui, di accogliere Dio come ospite nella propria vita.

Non si tratta di qualche energia positiva che uno scopre dentro di sé, di qualche risorsa psichica da attivare in noi, così di moda presso i cristiani affascinati da nuove spiritualità orientaleggianti, bensì si tratta di un’intimità profonda con Dio, con il Dio rivelato da Gesù che è Padre, Figlio e che dona lo Spirito.

Quando la teologia dei Padri e dei primi concili formula il termine Trinità non dice tanto un nome di Dio, anche se talvolta è usato come tale, in realtà non è un nome proprio, dice piuttosto un rapporto, una relazione. Tale relazione è l’inabitazione della Trinità, per usare un linguaggio caro alla teologia, che è il vertice della vita spirituale del discepolo di Cristo. Quando Gesù al termine della nostra vita ci dirà: avevo fame, avevo sete, ero prigioniero, nudo e malato … ci domanderà se siamo stati capaci di riconoscere l’inedito volto di Dio nell’ospite inatteso, di accogliere e di dare ospitalità al volto di Dio, di essere la dimora, quella ineffabile dimora divina del credente, promessa da Gesù, che è un dono che si riceve accogliendo l’Ospite inatteso.

(Gen 18, 1-10; Gv 14, 21-26)