I DOMENICA DOPO PENTECOSTE - Solennità della Santissima Trinità - Gv 14, 21-26


(Gen 18, 1-10; Gv 14, 21-26)

Potremmo, a ragione, considerare la festa liturgica della Trinità quasi superflua: infatti ogni domenica l’eucaristia è la celebrazione del Padre creatore, del Figlio redentore e dello Spirito santificatore. Infatti ad esempio tutte le preghiere che proclamiamo sono sempre rivolte a Dio Padre, per intercessione del Cristo e nel nome dello Spirito. Al punto che potremmo dire che la liturgia cristiana è un continuo immergerci nell’oceano dell’amore trinitario.

Ma anche molto più semplicemente, ogni volta che tracciamo la croce su di noi, segnandoci la testa, il cuore e le spalle, lo facciamo appunto nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito. Affinché i nostri pensieri siano sempre più secondo la volontà del Padre; perché il nostro cuore impari ad amare sempre più dell’amore che Gesù ha per noi; e perché le nostre azioni, come sta ad indicare il segnarci le spalle, siano secondo lo Spirito.

Questo per dire che il mistero trinitario non è un rompicapo teologico, anzi non incontriamo mai nella Scrittura il sostantivo «Trinità»: dobbiamo aspettare il IV secolo, quando il Concilio di Nicea (325) il primo concilio della Chiesa dopo quello di Gerusalemme (anni 40 – se si può considerare tale) formalizzò questa definizione, in un clima culturale ed ecclesiale certamente diverso dal nostro.

Se vogliamo rimanere al dato biblico, parlare di trinità di Dio non è nemmeno una questione di numeri: non troveremo non solo nel Primo testamento, ma nemmeno nel Nuovo, un qualche rimando all’essere uno, due o tre.

Piuttosto la parola di Dio che abbiamo ascoltato ci rimanda a qualcosa di sconcertante: per quanto possiamo dire di amare e di conoscere Dio, egli resta straniero, forestiero, uno che non conosceremo mai fino in fondo. Certo noi esprimiamo appunto nella preghiera che Dio è Padre creatore, che Gesù è il Figlio redentore e che lo Spirito è colui che ci guida nella santificazione… ma basterebbe ripensare alla nostra storia per riconoscere umilmente che il mistero di Dio è sempre più grande delle esperienze che possiamo vivere, è sovrabbondante rispetto alle definizioni che di lui possiamo dare.

Infatti nella prima lettura si racconta che mentre Abramo è seduto davanti alla sua tenda nell’ora più calda del giorno, alzando gli occhi vede tre persone in piedi, lì davanti a lui e prepara per loro – come la tradizionale ospitalità orientale fa pensare- un pranzo solenne e sontuoso. Il famoso iconografo Rublev ha immortalato questa scena nell’icona della Trinità (1422) dove appunto si vedono i tre uomini seduti sotto le querce di Mamre uno di fronte all’altro.

Però, ciò che Abramo compie è qualcosa di più rispetto alla nota ospitalità orientale. Notate scrive la Genesi: alzò gli occhi e vide tre uomini, e poi però si rivolge ad essi al singolare: Mio signore… Con grande finezza viene descritta la sobrietà di Dio nel venire incontro così ad Abramo, ma viene anche detta la fede di Abramo nel riconoscere in questi ospiti il Signore suo Dio.

Noi affermiamo spesso che Dio è vicino, che il volto di Gesù ci rivela il Padre, che Dio si è fatto uomo… e ora la parola di Dio e la fede della Chiesa ci dicono: ma l’Eterno per quanto ti possa essere famigliare, è anche straniero, Dio non si lascia catturare dalle nostre categorie mentali e dalle nostre aspettative.

L’Eterno è come uno straniero e come ogni straniero cerca ospitalità, come dice Gesù nel Vangelo, vuole «prendere dimora», chiede di essere accolto. Davvero il volto di Dio Padre, Figlio e Spirito per quanto possa esserci famigliare, è per noi sempre un volto straniero da accogliere. Dio arriva come ospite inatteso.

Parlare di Dio e del mistero della Trinità, ricorrendo all’immagine del forestiero e dello straniero oggi per noi significa andare controcorrente e vuol dire avere una certa dose di coraggio. Ma forse l’inedito di Dio non si rivela proprio in questa immagine antica come Abramo e al tempo stesso di estrema attualità?

Oggi non ci è dato di ragionare con semplicistico irenismo sul tema dello straniero, dell’altro, del diverso. Anche perché la diversità ci inquieta e ci interroga. La percepiamo come minacciosa e pericolosa a causa dei meccanismi della nostra stessa struttura di identità, personale e sociale. Perché abbiamo paura dell’altro, del diverso, dello straniero?

Certamente perché non lo conosciamo, ogni cosa che non sappiamo descrivere ci fa paura, suscita in noi distanza e diffidenza. Non solo, ma direi soprattutto perché in fondo la diversità ci attraversa. A pensarci bene, noi stessi ci percepiamo diversi da quello che vorremmo. Siamo stranieri a noi stessi nel bene che vorremmo fare e nel desiderio di essere altrimenti dal male che compiamo. La diversità non è un confine esterno che passa fuori di noi. L’esperienza prima è che la diversità ci attraversa, ci spacca il cuore, come dice Turoldo:

Sempre dilaniato dal «doppio pensiero»:

questo male non voluto e voluto:

conflitto e finzione

che durano una vita:

figlio prodigo e fratello maggiore insieme…

Noi non siamo un’unità che si possiede: siamo un desiderio che invoca e solo riconoscendo questo di noi, sapremo interpretare l’altro nelle sue paure e nelle sue differenze, se cioè avremo imparato a interpretare le nostre.

Allora come Chiesa, come discepoli di un Dio conosciuto e mistero al tempo stesso, come discepoli di un Dio amato e mai posseduto, di un Dio che preghiamo ma che è sempre oltre le nostre attese, dobbiamo installarci sulla faglia di questa epoca storica testimoni dell’alterità di Dio.

Anche se in realtà come chiesa stessa siamo sempre nella condizione di contraddire ciò che affermiamo, perché la chiesa è essa stessa una società e come ogni società vive l’altro, il diverso, l’estraneo come una minaccia e come ogni società si definisce per ciò che essa esclude. Formare un gruppo significa creare degli estranei: si danno delle frontiere perché si delimiti un «paese interno» e si definiscano gli altri «fuori».

E così di fronte all’estraneo, al forestiero e al diverso anche la chiesa è soggetta alla legge che governa tutte le società umane: o lo si assorbe oppure lo si isola. Per questo essere anche una società, la chiesa obbedisce alla legge che esclude o sopprime l’estraneo, ma facendo così non solo esclude un essere umano, ma al tempo stesso riduce Dio a non essere nient’altro che la giustificazione e l’idolo di un gruppo (M. de Certeau).

Mentre grazie proprio a quegli estranei che le tolgono i suoi beni, che ne rimettono in discussione le elaborazioni faticosamente acquisite, che la mettono in difficoltà, la Chiesa viene rimandata a contemplare l’alterità di Dio e impara a riconoscere il mistero d’amore che non si stanca di irrompere sulle strade del mondo.

Preghiamo perché possiamo avere mente, cuore e braccia per saper riconoscere e accogliere l’ospite inatteso, perché possiamo lasciarci sorprendere, nella stanca ripetizione dei gesti, dall’inedito di Dio.