XV DEL TEMPO ORDINARIO - Lc 10, 25-37
(Dt 30,10-14) Lc 10, 25 – 37
Riascoltando le parole di Gesù di oggi, molto probabilmente abbiamo pensato subito a ciò che dobbiamo fare noi, al nostro impegno di carità, al cristiano che deve farsi prossimo … o anche alle numerose istituzioni caritative che nei secoli la Chiesa ha saputo far nascere nella storia del mondo come risposta alle povertà e alle ingiustizie.
Personalmente credo che la parabola non voglia mettere al centro dell’attenzione quello che facciamo noi o quello che hanno fatto prima di noi generazioni e generazioni di cristiani. Anche se sarebbe interessante ripercorre secoli di carità cristiana per vedere i modelli di risposta che sono passati dall’assistenza alla promozione, dalla cura allo sviluppo. Ma non è questo che ci sta a cuore oggi.
I padri della Chiesa con una prospettiva assai interessante ci invitano ad ascoltare dentro la narrazione della parabola anzitutto la vicenda di Gesù: perché il samaritano della parabola è Cristo stesso che si piega sul disgraziato dimenticato sul ciglio della strada, che si prende cura dell’uomo malmenato, depredato e abbandonato a se stesso. Gesù è l’icona di Dio che si prende cura dell’uomo.
Anche noi che siamo qui e che veniamo da un periodo, da una settimana stanchi e prosciugati dalla fatica, sfruttati da tutti i signori e dalle regole di una società spietata, ebbene dopo che siamo stati spremuti, è solo il Signore che ci viene incontro, che si prende cura di noi, che si fa medico delle ferite di ogni discepolo versandovi l’olio e il vino, cioè donandoci la sua Parola e il suo Corpo come balsamo amorevole e che ci ama per quello che siamo! Già questa è una prospettiva che ci dà consolazione e pace: non siamo soli nella nostra fatica e nella nostra sofferenza, qualsiasi cosa ci possa accadere, per quanto possiamo essere prosciugati nelle nostre energie e forze, Gesù si prende cura di noi, ci è vicino, si commuove per il grande dolore del mondo!
La parabola del Samaritano per un verso ci consola, come fa l’olio sulle ferite, dall’altro però è come il vino, l’alcool diremmo noi oggi, che brucia e ci costringe a reagire. Il testo possiede anche una provocazione dirompente.
Osserviamo fin dall’inizio l’atteggiamento del dottore della legge: con le sue domande incalzanti vorrebbe ricevere da Gesù delle indicazioni, delle regole, dei criteri per capire chi sono coloro che deve amare, quali sono le categorie più bisognose cui prestare attenzione … sembrerebbe una domanda innocua, ma in realtà ne nasconde un’altra, che è rimasta implicita: chi sono di conseguenza coloro che invece non meritano la mia carità? Chi devo aiutare e chi invece no?
Imbarazzato, perché non ottiene da Gesù quella risposta che avrebbe potuto tacitare la sua coscienza di benpensante, chiede: chi è il mio prossimo? chi è? che così io possa amarlo, possa organizzare una raccolta fondi, possa fare delle cose per lui … ma chi è? Gesù risponde: il “mio prossimo” non esiste da nessuna parte, se non nella tua testa e nelle tue politiche selettive e di esclusione …
Il prossimo diventi tu quando provi compassione per l’uomo che sta ai margini della tua strada, quando provi compassione e ti chini su colui che soffre a pochi metri da casa tua. È questo verbo che fa la differenza e che tiene insieme il racconto: avere compassione … È il verbo di Gesù, vero samaritano dell’umanità. È il verbo che dice l’atteggiamento del Signore quando si trova davanti al lebbroso, quando incontra il cieco, o quando ascolta il pianto della donna che sta per essere lapidata … è il verbo del Padre misericordioso quando vede tornare il figlio prodigo … È un verbo che in greco è deponente, ovvero di forma passiva ma di significato attivo.
Proviamo a pensare: la compassione non ci sembra talvolta una forma di passività, un sentimento da cui proteggerci per non soffrire troppo? Così che quando la incontriamo preferiamo riempire la nostra relazione con chi soffre di parole di circostanza e di frasi fatte? Non perché siamo cattivi ed egoisti, ma perché ci rendiamo conto che la sofferenza dell’altro ci avverte che nella situazione che abbiamo davanti agli occhi, un giorno potremmo trovarci noi; siamo messi dinnanzi alla realtà di vedere nell’altro che soffre, la nostra sofferenza, anzi il dolore di tutta l’umanità. Non è più semplicemente uno spettacolo morboso, di cronaca nera.
Perché allora Gesù prende come protagonista della parabola un samaritano? Uno che in realtà di protagonismo proprio non sa nulla, anzi è uno che come tutta la sua gente porta su di sé il grande peso della sofferenza perché sempre emarginato, non considerato. I contemporanei di Gesù quando pronunciavano il termine “samaritano” sputavano per terra, per dire tutto il disprezzo che meritava! Non a caso nel vangelo di Giovanni quando i giudei vogliono coprire di insulti Gesù non troveranno appellativo più infamante di questo: Non diciamo a ragione noi che sei un samaritano e hai un demonio? (8,48).
In definitiva il samaritano non è ‘buono’ – avete notato come curiosamente non c’è nessun riferimento a questo aggettivo nel vangelo -, come a dire quello è buono e tutti gli altri sono comunque cattivi. Il samaritano è sicuramente uno che ha provato cosa passa nel cuore di un uomo quando viene guardato di sottecchi e ignorato e quando non viene nemmeno considerato come un essere umano da chi si affretta magari ad andare al tempio a pregare! Quel samaritano non è stato buono perché di cuore nobile, ma è perché portava in sé quelle ferite che lo hanno reso sensibile alle ferite degli altri. Solo chi ha sofferto sa veramente amare.
Per contro gli altri personaggi del Vangelo non sono i “cattivi” di turno sui quali spostare tutte le colpe, ma sono la personificazione delle nostre paure, dei nostri alibi e della nostra fretta di fronte alla sofferenza dell’altro. Credo che questi siano gli ostacoli ancora veri oggi per noi: abbiamo paura di farci coinvolgere troppo nella sofferenza dell’altro; abbiamo sempre tante cose da fare e tanta fretta che non possiamo fermarci, come i due personaggi del vangelo che non hanno tempo per fermarsi; siamo abilissimi nei nostri alibi, perché con certi problemi occorre competenza e ci deve pensare la Caritas …
Proviamo a pensare a chi è stato un Samaritano per noi nella nostra vita: ringraziamo il Signore per quelle persone che ci hanno reso vicino l’amore di Gesù, un amore che è sceso come balsamo e come olio sulle nostre ferite e su quelle delle nostre famiglie per farci sperimentare ancora una volta la tenerezza dell’Eterno.
Ma dobbiamo anche essere onesti e sinceri con noi stessi per riconoscere tutto ciò che ci impedisce di amare davvero: la nostra fretta, le nostre paure, i nostri alibi, le nostre indifferenze. Per questo siamo qui, chiediamo al Signore di farci prossimi a coloro che pone sul nostro cammino con cuore solidale e generoso, senza esclusioni.