VI DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 10, 40-42


audio 9 ott 2022

Dopo la definitiva caduta di Kabul nelle mani dei Talebani, nell’agosto 2021, Abdul, 22 anni, e i suoi famigliari che facevano parte della resistenza nel Panshir, in Afghanistan, si spostano e cercano di raggiungere l’aeroporto. Dopo quattro giorni di attesa il giovane supera l’ingresso del gate, ma il resto della sua famiglia non riesce a passare e il 26 agosto atterra a Roma Fiumicino. Dovrebbe essere l’inizio di una vita libera, ma così non è. Viene trasferito in un centro vicino a Torino, come richiedente asilo.

Si sposta in Val Susa a pochi km dal confine francese e tenta di attraversare una prima volta, per raggiugere il fratello maggiore che vive a Londra, ma viene respinto. Il regolamento di Dublino non gli permette di lasciare l’Italia che è il suo Paese di primo arrivo. Abdul ritenta e riesce a “bucare” la frontiera. Raggiunge in pochi giorni il nord della Francia. Ad aspettarlo un amico con cui comincia ad abitare a un centinaio di km da Calais, il luogo da cui partono le barche che raggiungono le coste del Regno Unito.

Resta per circa un mese, tenta di partire più volte ma non riesce a raggiungere il territorio britannico. Una sera la polizia francese lo ferma e lo trasferisce in un centro di detenzione per stranieri irregolari a Rennes. Siamo a fine settembre. Abdul rimane detenuto per più di un mese e nonostante le udienze davanti al giudice dichiari di voler chiedere protezione internazionale, continua a vedersi negata la libertà. Il 9 dicembre 2021 viene scortato da due poliziotti francesi su un volo civile diretto a Venezia: in aeroporto avviene il passaggio di consegne con le autorità italiane che valutano la sua situazione sommariamente. Abdul si trova di nuovo in detenzione. Questa volta in provincia di Trieste nel Cpr (Centro permanente per il rimpatrio) di Gradisca d’Isonzo.

Resta nel Centro 32 giorni: la luce dello stanzone in cui dorme per due settimane con 13 persone viene spenta dagli agenti dall’esterno. Ci sono solo due bagni e la finestra della stanza è rotta, così come il riscaldamento. Non ci sono neanche coperte per tutti. Abdul resta in stanza, senza poter uscire, per più di due settimane, senza cambiarsi mai gli indumenti, neanche la biancheria intima. Solo negli ultimi giorni viene trasferito in un’altra “ala” del centro e può uscire di giorno, in una piccola porzione di prato sui cui affaccia il suo stanzone. Riesce a mettersi in contatto con un avvocato. Dichiara di voler chiedere asilo in Italia e di non essere rimpatriato in Afghanistan. “Pensavo di trovare libertà, invece in Europa ho trovato solo la galera”[1], sarà la sua amara constatazione.

Ho voluto raccontarvi una storia di cosa non è accoglienza: è una delle storie dei 15mila profughi armati di zaini e coperte che mettono in scacco 500 milioni di europei. Europei, figli, come dice papa Francesco delle terre del benessere, ma incapaci di accogliere. Proprio questo verbo che Gesù nel Vangelo ha ribadito con una certa insistenza, come specifico del discepolo e che trova oggi resistenze e opposizione e anche una certa dose di ipocrisia.

Negli ultimi vent’anni in tutta l’Unione Europea si sono moltiplicati luoghi di detenzione amministrativa per stranieri, che sono in realtà carceri per persone che non hanno commesso alcun reato. E non solo in Polonia o in Ungheria.

Lo dico perché sarebbe pura retorica ribadire la necessità di accogliere, secondo le parole di Gesù, fino a quando l’opinione pubblica si disinteressa del rispetto dei diritti fondamentali degli stranieri: quando mai avete sentito parlare di detenzione amministrativa? Eppure l’incapacità di comprendere l’immigrazione come un fenomeno storico, sociale e strutturale ha spinto la politica alla ricerca di un facile consenso al ribasso, invece di elaborare risposte responsabili, rispettose dei diritti umani, ha inventato i Centri per il rimpatrio[2].

Non è questione di generosità, di bontà o amenità di questo genere… sono in questione i diritti umani di cui dobbiamo essere più consapevoli.

Quando Elia viene accolto dalla vedova di Sarepta di Sidone, è accolto non solo in terra straniera, ma addirittura ostile e durante il perdurare di due anni di carestia! E la vedova mette al di sopra di tutto l’accoglienza di chi ha fame, di chi scappa dalla persecuzione.

Non c’è alcun dubbio, ci vuole coraggio ad accogliere. Eppure la sfida sta proprio qui: secondo Gesù accogliere l’altro è un dono, prima ancora che un impegno. L’ipocrisia dei Paesi occidentali sta nel rendere invisibili queste persone, le frontiere funzionano così, come angolo prospettico del nostro mondo.

Accogliere l’altro, ci insegna la Scrittura – qualsiasi sia la sua condizione sociale, religiosa, economica e politica – è un dono, anzi ci dice Gesù, l’altro diventa per chi accoglie un «profeta», «un giusto» e un «piccolo».

Tre categorie non esclusive, come vorrebbe qualcuno che bestemmia dicendo: «Accogliamo solo i cristiani»! Gesù non pone dei criteri di religione o di cittadinanza per accogliere, non definisce dei limiti, delle regole… anzi, afferma che quando tu accogli l’altro, l’altro è appunto un triplice dono.

Anzitutto, l’altro che accogliamo è un profeta per noi. Non è semplicemente oggetto delle nostre cure, ma è un profeta, nel senso che rivela a noi stessi, alla nostra coscienza così distratta, cosa conta davvero nella vita. Così che per quanto ci si impegni a costruire muri, barriere e filo spinato per difendersi e per avere voti… l’altro, il povero, il profugo, il migrante irrompe a rivelarci con la crudezza della sua condizione che per noi le cose contano più degli esseri umani, rivela la nostra meschinità e, in definitiva, rivela la nostra paura di perdere il nostro benessere. Il migrante è un profeta per noi perché chi viaggia in mare sa che non ci sono linee nell’acqua, che ogni onda porta con sé un confine da dissolvere, che nessun limite merita più rispetto di una vita umana.

Non solo, quando accogli l’altro, dice ancora Gesù questi si rivela come un giusto per te. Nel senso che non sappiamo nulla della sua fedina penale, ma l’altro nella sua condizione itinerante, povera, insicura rivela l’ingiustizia che governa il mondo. Il sistema d’inequità, come dice spesso papa Francesco, quell’inequità che ci fa sentire proprietari del mondo, possessori dei beni, così che ci autorizza a sfruttare la terra e le sue risorse non per condividere, ma per arricchirci e per questa mentalità siamo disposti a combattere… ecco è la radicale ingiustizia che l’altro, il povero denuncia con la sua stessa presenza.

La terra è di Dio, ed è affidata a noi perché la custodiamo e ne condividiamo i frutti, non perché ne diventiamo i padroni.

Infine accogliere l’altro, dice Gesù, non significa fare grandi cose, l’altro che ci viene incontro si rivela a noi come un piccolo – e non semplicemente un piccolo in senso di età -, ma lett. un micro, un’unità di misura minima di fronte ai grandi fenomeni, ai grandi imperi, alle grandi imprese… Che cos’è un essere umano dinnanzi ai grandi capitali della finanza e dell’economia, agli interessi delle grandi imprese?

Il Vangelo in un contesto di globalizzazione, in un momento in cui contano i grandi movimenti e fenomeni globali, ci ricorda che un gesto di accoglienza, un’ospitalità amorosa basta per avviare un corso diverso delle cose.

La rivoluzione del Vangelo accade attraverso piccoli gesti capaci di invertire la rotta della paura e della diffidenza, ma anche in grado di svelare l’ipocrisia delle terre del benessere che fanno finta di accogliere per poi rinchiudere persone che cercano libertà e pace.

(1Re 17,6-16; Mt 10, 40-42)

[1] Facchini, Rondi, Respinti ed. Altreconomia, 2022 pp.129-130.

[2] I Cpr sono previsti dalla Legge Turco-Napolitano che dal 1998 istituzionalizza il trattenimento della persona qualora non sia possibile eseguire immediatamente l’espulsione. Su questa norma il legislatore è intervenuto ben 14 volte: un’ossessione per la sicurezza, fino ai decreti Salvini dell’ottobre 2020, che prolungano il trattenimento delle persone fino a 90 giorni.