V DI AVVENTO - Gv 1, 6-8. 15-18
Vengo da una settimana trascorsa con una carovana di aiuti umanitari per l’Ucraina. Da Milano a Leopoli fino a Odessa per poi spingerci sino a Kherson, dove guidati da due fratelli preti ucraini abbiamo raggiunto i tre sperduti villaggi di Zelenivka, Fedorivka e Sonyanche, portando il nostro carico di aiuti umanitari e non solo.
Il clima era surreale: la povertà dignitosa segnata dal freddo, l’attraversamento di città senza elettricità, l’incontro un popolo di anziani, donne e bambini pronto a raccogliersi in chiesa per pregare insieme, mentre il rumore sordo della contraerea ucraina scandiva con ritmo mortale il tempo…
Non credo di aver mai vissuto in vita mia così tante contraddizioni tutte insieme e di averle toccato con mano.
Ho visto la fede di quella povera gente, occupata per cinque, sei mesi dai russi, che ha dato loro la forza per andare avanti. Eppure, riflettevo, è la stessa fede di chi dall’altra parte del fiume, del fiume Dnipro, occupa e a sua volta bombarda e semina morte. Anch’essi pregano, anche le loro famiglie si rivolgono a Dio e lo fanno con le stesse preghiere della tradizione cristiana ortodossa.
Ma Dio, quale preghiera ascolta Dio? da che parte si volta l’Eterno per ascoltare: dalla parte degli invasori o dalla parte degli offesi?
A me parrebbe regnare piuttosto il silenzio di Dio. Noi diciamo parola di Dio, parola del Signore… ma forse dobbiamo anche riconoscere che più frequente è il silenzio di Dio. Dio è parola, ma è anche silenzio. Ci sono tempi in cui la parola di Dio è rara (1Sam 3,1), ci sono tempi come dice il profeta Amos:
“11… in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore». 12Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno.” (8,11-12).
Anche noi nella nostra vita personale tante volte avremmo voluto riconoscere la voce di Dio o udire una qualche sua parola e invece… silenzio.
Perché questo silenzio? Che cosa può significare?
Potrebbe essere una scelta di Dio che avendo già parlato in termini inequivocabili, ora tace perché non ha nulla da aggiungere né da togliere a quello che ha già detto. Come è accaduto nel dramma storico della Shoah qualcuno ha gridato dove fosse Dio, ha chiesto perché Dio non parlasse in un frangente tanto doloroso per il suo popolo, non facesse udire la sua voce! Ma quello che viene chiamato silenzio di Dio è storicamente il silenzio delle chiese. Sono le chiese ad avere la responsabilità di annunciare la parola di Dio e a non averlo fatto!
Ma c’è anche un altro senso di questo silenzio di Dio, come scrive un pensatore ebreo tedesco, Hans Jonas (1903-1993) famoso per averci costretto a ripensare radicalmente Dio, il concetto di Dio, dopo Auschwitz.
In estrema sintesi, nella rivelazione biblica l’Eterno non è una sfinge indecifrabile, un puro enigma, un punto interrogativo, anzi Dio si è rivelato come bontà assoluta, onnipotenza assoluta e comprensibilità.
Tuttavia dopo Auschwitz Dio non può più essere pensato così. Dopo Auschwitz non si può più pensare Dio come, al tempo stesso, buono e onnipotente; infatti se lo fosse stato, essendo onnipotente, avrebbe senza dubbio impedito un male così orrendo, ed essendo buono, l’avrebbe fatto; siccome non l’ha fatto vuol dire o che non è buono, o che non è onnipotente. Ma un Dio che non è buono non è più Dio. Quindi rimane solo l’opzione che Dio non sia onnipotente. Solo così possiamo comprendere Dio dopo il trauma di Auschwitz: disgiungendo bontà e onnipotenza.
Questa è un’affermazione dalle implicazioni importanti: perché un Dio privo di onnipotenza, può certamente condividere le sofferenze dell’uomo, simpatizzare e soffrire con lui. Ma potrà anche vincere il male? Se non potrà vincerlo, e tantomeno potrà vincerlo l’uomo, dovremo allora rassegnarci e considerare il male e la morte la verità ultima, vincente, della storia e dell’uomo?
L’ultima frase della pagina di Vangelo di oggi dice così: Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Se la religiosità indirizza l’uomo a cercare la potenza di Dio nel mondo, un Dio che è come il Deus ex machina… un Dio tappabuchi, questo Dio però non lo ha mai visto nessuno.
È la fede in Gesù che ci introduce alla conoscenza del volto di Dio, perché Gesù ce lo ha narrato (e)chgh/sato), ce lo ha rivelato, ne ha fatto l’esegesi.
Di che Dio ha parlato Gesù? Un Dio che si china sulle ferite, sul dolore, si fa parte con i peccatori, con gli scartati… Un Dio che non lascia indietro nessuno, che perdona, che accoglie, che ama.
Ci dobbiamo chiedere che cosa possa aver spinto Dio a scegliere la via dell’incarnazione, della piena condivisione della matura umana, svuotandosi della sua divinità e scegliendo la condizione dell’uomo e dello schiavo (Fil 2,6-8). La risposta è una sola: l’amore.
Comprendiamo che tipo di impotenza è quella che Dio ha manifestato nella storia e nel destino di Gesù: è l’impotenza dell’amore.
Infatti la potenza dell’Amor che move il sole e l’altre stelle (Dante, Paradiso 33,145) implica la sua impotenza di fronte a tutto ciò che non è amore.
L’amore non ha altra arma che l’amore e non può vincere se non amando.
Questo è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. Poiché l’amore si impone solo amorevolmente, l’amore è sì sommamente vulnerabile dall’esterno, ma profondamente indistruttibile dall’interno. L’amore non può distruggere, ma solo trasformare ciò che gli si oppone.
Gesù ha rivelato l’amore di Dio, un amore impotente. L’impotenza di Dio è quella rispecchiata nella vita di Gesù. Partecipando alla vita di Gesù, vivendo con lui il suo essere solo per gli altri, si sperimenta l’impotenza di Dio e si capisce che impotenza di Dio, non vuol dire eclissi di Dio, ma accesso a un altro modo di essere con lui.
Un’autentica esperienza di Dio si ha soltanto partecipando alla vita di Gesù, che non è stata altro, per dirla con le parole bellissime di Bonhoeffer, che un esistere-per-gli-altri.
Scrive Bonhoeffer nella lettera all’amico Bethge, il 3 agosto 1944: L’esserci-per-gli-altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza… il nostro rapporto con Dio non è un rapporto ‘religioso’ con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare… non è nemmeno nelle forme concettuali dell’assoluto del metafisico, dell’infinito… e nemmeno la figura greca del dio-uomo dell’uomo in sé, ma l’uomo-per-gli-altri, quindi il Crocifisso. L’uomo che vive del trascendente[1].
[1] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, pp. 519—520.