V DI QUARESIMA o Domenica di Lazzaro - Gv 11, 1-53
(Gv 11, 1-53)
Tutti noi abbiamo sperimentato la tenerezza di un’amicizia, di un affetto come antidoto al potere che ha l’annuncio di una malattia che ti cambia la vita. Nel momento in cui si riassettano le proporzioni dei problemi e il peso delle cose che fino a pochi istanti prima ritenevi decisive… sei restituito alla tua umanità più autentica.
Questa umanizzazione dei sentimenti e delle relazioni è già un grande dono del vangelo, è già una buona notizia che ci dà consolazione. Gesù con il suo pianto umanissimo, preceduto anche dai dialoghi con i discepoli e le sorelle Marta e Maria ci apre uno squarcio sulle sue relazioni, sui suoi sentimenti di amicizia.
Gesù è un uomo capace di affetto, è un amico su cui puoi contare e infatti nel momento del bisogno lo mandano a chiamare. Ma è anche un amico con il quale puoi avere delle divergenze perché non asseconda sempre le tue aspettative e per questo Marta e Maria sembrano rimproverarlo… Però c’è e condivide il tuo dolore.
Ed è nel momento più drammatico di un’amicizia che Gesù, anche lui con gli occhi velati di pianto, si mette a pregare – come capita a noi tra l’altro – solo che lui alza lo sguardo verso il Padre, dice Giovanni.
Normalmente un pio israelita nel pregare rivolgeva lo sguardo verso il tempio. A noi magari succede di ripiegarci su noi stessi a cercare un’intimità che ci dia forza. Gesù invece alza i suoi occhi al Padre come a intercedere, a presentargli il grido umano che l’amicizia fa esplodere in tutta la sua drammaticità: perché la sofferenza? perché la morte? perché il dolore? perché volerci bene se poi tutto sembra finire e lasciare le cose come in sospeso?
Gli occhi di Gesù velati di lacrime che si alzano verso il Padre ci fanno “vedere” la vita in quella prospettiva che noi chiamiamo “ultima”, perché la consideriamo la fine, ma in realtà è quella definitiva della vita che non muore.
Infatti Gesù dopo aver rivolto il suo sguardo al Padre, si rivolge a Lazzaro, nel sepolcro già da quattro giorni e gli grida: Lazzaro, vieni fuori! e così facendo inaugura la sua signoria sulla morte e Lazzaro obbedisce.
Non è ancora la parola definitiva, perché in realtà Lazzaro non risorge, viene richiamato in vita e di lì a qualche tempo conoscerà ancora la morte. Però quello che conta è che la parola di Gesù, attraversando la dura roccia di un sepolcro e che addirittura il morto può ascoltare, ci viene a ricordare la promessa di vita iscritta in ciascuno di noi, una vita che non può morire con la morte.
Chi pensa che la morte metta fine a tutto e che di fronte ad essa siamo tutti uguali, la famosa “livella” di Totò, dice una parziale verità, perché dimentica che il Padre ci ha resi partecipi della sua vita che non muore, che noi siamo impastati di eternità.
Quando dimentichiamo questa dimensione che prima o poi misuriamo con la morte, quando rimuoviamo la prospettiva di quella dimensione che la fede cristiana chiama escatologia, lett. “le cose ultime”, eskata, ma che sarebbe meglio intendere come definitive, quando dimentichiamo questa dimensione ci ripieghiamo sui media.
Non intendo solo i cosiddetti mass media, cioè i mezzi di comunicazione di massa, ma ciò che, come suggerisce il termine stesso «media» (un latinismo di ritorno) «ciò che sta a metà tra due poli», tra l’origine e la destinazione, l’eskaton.
Se per media intendiamo ciò che nella nostra vita sta nel mezzo tra la nostra origine e la nostra destinazione, vale a dire le relazioni, il lavoro, la professione, gli affetti, le cose… nel momento in cui ciò che sta nel mezzo perde di vista la sua sorgente e la sua destinazione, l’esperienza della morte ci annichilisce e manda in cortocircuito tutto quello che ci siamo costruiti.
Gesù con quelle parole: Lazzaro vieni fuori! e che sentiamo rivolte anche a noi oggi, ci chiama fuori dalla gabbia di ciò che sta nel mezzo, ci chiede di lasciare che con lo sguardo velato di lacrime riconosciamo la nostra origine e la nostra destinazione.
La metafora è di grande intensità per dire che questa è la condizione dell’umanità nella quale il Signore ha posto il germe di eternità, della sua vita divina, eppure è un’umanità a volte bloccata e avvolta dalle bende di ciò che sta nel mezzo.
Ho letto con sconcerto quello che succede a numerosi adolescenti in Giappone, e ormai non solo più lì, e che vengono chiamati gli Hikikomori (stare in disparte), pare che siano quasi un milione. Sono adolescenti che si isolano totalmente, si chiudono nelle loro camere per mesi, anche per un anno senza mai uscire, i genitori passano loro il cibo, e questi ragazzi stanno lì dentro con i loro computer, impegnando il loro tempo a giocare ai videogiochi e in perenne connessione virtuale…
È un’immagine parossistica, ma drammaticamente reale di quello che succede quando enfatizzando i media, le cose di mezzo, dimentichiamo che siamo fatti per la vita eterna e così – prigionieri delle nostre cose – non viviamo più nemmeno una vita umana, né fraterna, né bella.
Infatti Gesù dice a Marta che il tempo della risurrezione non è solo dopo la morte, è già oggi. Oggi Gesù è la risurrezione e la vita. «Io sono la risurrezione e la vita» dice il Signore e questa è una certezza per noi cui possiamo aggrapparci e che vince le nostre paure e ansie.
Quando Marta e Maria rimproverano a Gesù di non essere stato lì al tempo giusto, danno voce a un’esperienza che è diventata una vera e propria schiavitù e una maledizione per la nostra vita quotidiana. «Dov’eri? Dove sei? Non ti troviamo mai? Perché non hai risposto al messaggio? Perché hai spento il cellulare?…». Quante volte ce lo siamo sentiti dire o lo abbiamo detto anche noi a qualcuno. Così sembrano dire anche a Gesù, le due sorelle.
La buona notizia di un vangelo come questo è che per il Padre siamo sempre raggiungibili, sempre reperibili. E questa, ben lungi dall’essere una maledizione, è l’unica vera speranza della nostra vita, l’unica certezza a cui aggrapparci. Anche quando ci siamo perduti, anche quando percepiamo di trovarci umiliati e distanti, smarriti in un sepolcro senza fondo, lontani da ogni possibilità di bene, il Signore ci può trovare. Per lui c’è sempre “energia” e “campo” sufficiente, anche quando noi ci sentiamo spenti, irraggiungibili, disperatamente lontani da qualunque parola e gesto di bene.
Non solo, ma proviamo a pensare quante e quali bende tengono prigioniere tante vite intorno a noi: la paura, i sensi di colpa, lo scoraggiamento… Quante facce tristi, quante vite fasciate e irrigidite incontriamo nelle vie della città. Con la relazione e la cura, con la compassione e la pazienza il Signore ci domanda di aiutarle a liberarsi dalle bende nelle quali la loro vita si svuota in un lento decomporsi.
A Gesù che ancora una volta nell’Eucaristia ci fa dono della sua amicizia perché non c’è amore più grande di chi dà la vita per gli amici, rivolgiamo la nostra preghiera:
Signore noi crediamo che la tua amicizia ci libera,
che il tuo affetto ci scioglie dalle bende della paura,
rendici donne e uomini capaci di liberare la vita.