GIOVEDI’ SANTO - ULTIMA CENA DEL SIGNORE - Mt 26, 17-75
(Mt 26, 17-75)
Questa mattina chi entrava nel nostro duomo aveva innanzi agli occhi uno scenario suggestivo: la navata era una diffusa distesa di vesti bianche delle centinaia e centinaia di preti diocesani e religiosi che insieme ai vicari episcopali, ai vescovi ausiliari dinnanzi al Cardinale ha solennemente rinnovato le promesse sacerdotali, in questo anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI.
Ma quell’immagine di Chiesa sarebbe incompleta senza quella di questa sera nella nostra chiesa e in tutte le altre comunità della diocesi: il sacerdozio ministeriale, come diceva l’Arcivescovo, è a servizio del sacerdozio battesimale dei fedeli perché insieme continuiamo la missione di Gesù in questo tempo, in questa società.
Dunque la nostra assemblea costituisce uno tra i momenti più alti della vita della parrocchia: siamo qui, preti, consacrati e consacrate, laici sposati e celibi in piena comunione a fare memoria dell’amore di Dio per noi manifestato in Gesù a servizio dell’umanità. L’anno sacerdotale passerebbe invano se non ricordassimo gli uni agli altri che la nostra comune missione è quella del Cristo, il quale ha tanto amato il mondo da dare la sua vita.
La maggior parte di noi è cristiana fin dalla nascita, alcuni lo sono magari in maniera più consapevole da qualche anno, comunque tutti noi come i discepoli abbiamo avuto numerose occasioni per ascoltare la parola di Dio, per crescere nella relazione di amicizia col Cristo e per guardare il mondo con gratitudine.
Quante volte come Pietro abbiamo detto a Gesù: Tu sei il Cristo! Senza di te la mia vita sarebbe priva della forza di andare avanti! Abbiamo alle spalle esperienze di preghiera intensa, così come è anche vero che altre volte ci siamo smarriti e delusi … Abbiamo retto con fedeltà anche la prova dura del dolore e dell’angoscia della perdita di amici e di persone care … In poche parole anche la nostra esistenza ha vissuto il tempo della Galilea, lo stiamo vivendo ancora.
La celebrazione del Giovedì santo ci sta a ricordare che il tempo della Galilea finisce, perché come per Gesù anche a noi è dato di arrivare al giorno in cui la vita ci chiederà conferma di tutto ciò che siamo stati. E Gesù arrivato a questo momento, che non lo coglie impreparato ma dispone tutto con precisione, riassume tutta la sua vita in un gesto: spezza il pane. Un gesto che non è una novità assoluta, anzi ha scandito tutta la sua esistenza. È così abituale e frequente che i discepoli ne sottolineano gli elementi essenziali: prese il pane, benedisse, lo spezzò, lo distribuì. In questi quattro verbi c’è tutta una vita, un modo di essere, un modo di fare, un modo di usare le cose. Questo gesto diventa il gesto di Gesù, tanto che i discepoli lo riconobbero allo spezzare dal pane (Lc 24, 35).
C’è nel pane che viene spezzato una misteriosa legge della vita: la vita nasce da un apparente morire. Come poteva parlare altrimenti del suo corpo quale dono nel momento stesso in cui stava per essere venduto, o del suo sangue come quello di un’alleanza nuova, nel momento in cui la sua stessa comunità si stava disintegrando?
Ma seguendo la narrazione del vangelo di Matteo – che nella tradizione ambrosiana non si ferma all’ultima cena – registriamo anche le diverse reazioni intorno a questa consapevolezza di Gesù, che non sono molto lontane dalle nostre, anzi in esse scopriamo anche il nostro modo di essere cristiani nella Galilea di oggi.
Abbiamo sentito che il sonno dei figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo, e di Pietro è vincente sul desiderio di pregare di Gesù insieme a loro, così come la nostra pigrizia o l’intontimento delle cose ci hanno a lungo allontanati dalla preghiera. I trenta denari di Giuda sono una terribile Eucaristia, un terribile segno, come quello di Caino. E chi di noi non se lo ritrova dentro? La lavanda delle mani di Pilato è una squallida Eucaristia, l’Eucaristia del vile opportunista, come ascolteremo domani. Forse sentiamo più vicine le lacrime di Pietro, il quale quando misura la sua distanza dal pensare di Cristo, non ha altra via d’uscita che quella di lasciarsi andare ad un pianto di dolore, il dolore di essere arrivato impreparato a Gerusalemme. Pietro non è capace di riconoscere l’ora di Gesù, e quando si rende conto che questa è l’ora in cui si condensa tutta la vita del suo amico e maestro, è ormai tardi. Dal momento in cui con il Battesimo ci siamo immersi in Cristo, abbiamo acconsentito a che la sua vita diventasse per noi paradigma della nostra stessa esistenza. Per ognuno di noi c’è il tempo della Galilea e il tempo di Gerusalemme.
Celebrando la pasqua, sedendoci alla mensa della Parola e del Corpo di Gesù, vogliamo imparare insieme a lui e con lui a dare alla nostra vita il compimento nell’amore. Giovanni nel suo vangelo lo annuncia ricordando un altro gesto, forse perché già nella sua comunità lo spezzare del pane era diventato scontato, un’abitudine rituale e non più capace di provocare la pigrizia dei cristiani. Giovanni ci dice che Gesù alzatosi da tavola, si cinse il grembiule e si mise a lavare i piedi ai suoi discepoli. Anche noi riviviamo tra poco quel gesto per dire che questa è un’altissima Eucaristia, un impressionante simbolismo di umiltà e di servizio, capace di condensare tutta la vita del Signore che si curva su ciascuno di noi per dire l’amore di cui Dio è capace.
Da allora l’Eucaristia è il sacramento per eccellenza della comunità cristiana, qui impariamo la comunione, qui impariamo a servire, qui veniamo immersi nell’esercizio dell’umiltà. Qui il perdono delle offese, la riconciliazione degli avversari, il superamento delle antipatie, l’apertura al dialogo, al senso di comunità, al gusto dell’accoglienza, che è tutto un nuovo modo di essere dell’uomo, dell’umanità. Come diceva un benedettino anglicano qui si dà l’ homo eucharisticus (Gregory Dix), l’umanità eucaristica. Cioè un modo di essere diversamente nel mondo, di abitare la storia con il modo di essere del pane che viene preso, benedetto, spezzato e donato.
Di fronte a questa missione siamo tentati come Giona di sottrarci, di non andare a Ninive la grande città, perché la società non ci capisce, perché siamo rassegnati, perché ci scoraggiamo che siamo pochi, perché siamo affascinati da un cristianesimo potente per forza materiale … ma se Gesù ci lava i piedi e fa della sua vita un pane che si spezza, è perché il mondo non si salva col denaro, con la potenza, con la tecnica. Il mondo si salva con il dono di noi stessi. Non vedo altro sacerdozio più sensato di questo, che è la continuazione del sacerdozio del Cristo.
In questo tempo della nostra Galilea lasciamo che il Signore formi il nostro cuore e la nostra mente, fino al giorno in cui anche per noi verrà l’ora della Pasqua per unirci a lui.