DOMENICA DOPO L’OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE - Lc 4, 14-22


Abbiamo appena celebrato il Natale di Gesù… e ora la liturgia, in questa domenica prima dell’Epifania, ce lo fa incontrare già trentenne mentre legge il rotolo di Isaia nella sinagoga di Nazareth. Questo perché nella liturgia cristiana c’è un percorso per così dire «cronologico» della vita del Cristo, ma non solo, c’è anche un percorso teologico. Infatti nelle prossime celebrazioni ricorderemo diverse manifestazioni di Gesù, che sono altrettante «epifanie» di cui quella più nota è la visita dei Magi, ma anche il Battesimo al Giordano è un’epifania, così come le nozze di Cana, la famiglia di Gesù al tempio…

Ebbene oggi celebriamo appunto quella che possiamo chiamare «l’epifania di Nazaret». Gesù dopo aver cominciato a parlare di Dio, della misericordia, della cura che ha per i peccatori, i poveri… in Galilea, un sabato mattina torna a Nazaret, torna al suo paese, proprio lì dov’era cresciuto, dice Luca, e si reca in sinagoga.

Noi immaginiamo che si andasse alla sinagoga alla maniera in cui noi veniamo in chiesa la domenica, ma non era proprio così. L’assemblea del sabato in sinagoga era un momento «democratico» della comunità del villaggio, era una vera e propria assemblea nella quale dopo la lettura della Torah e dei profeti si apriva la discussione e il dibattito sui problemi che interessavano appunto i concittadini, tutti vi potevano partecipare, uomini, donne, malati, poveri…

Era previsto che si leggesse un versetto della Torah e al massimo tre versetti dei Profeti, per poi lasciare spazio all’adulto di turno che offriva il suo commento, cui faceva seguito la discussione tra i presenti «seduti» all’intorno. Questo era il modo solito di iniziare una riunione. Il capo della sinagoga (l’arcisinagogo), oltre a prendersi cura del luogo materiale, garantiva anche l’ordine dell’assemblea, perché differenze di opinioni o comportamenti non ammessi finissero col provocare turbolenza e dissensi (Lc 13,10-17). Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, testimone di assemblee riottose nella sinagoga di Tiberiade, scrive che lui stesso vi partecipava indossando una corazza sotto i vestiti e facendosi accompagnare da uomini segretamente armati (Autobiografia 277-293).

Insomma la sinagoga non era il luogo del culto, del sacrificio, questo avveniva al tempio, potremmo dire che era una sala multiuso, all’occorrenza diventava luogo di preghiera, di ascolto della Parola, ma anche spazio per discutere e affrontare i problemi del villaggio, delle relazioni…

Gesù legge i versetti del profeta Isaia, versetti che hanno una loro storia, molto chiara per chi ascoltava, forse un po’ meno per noi, perché sono da collocare dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia, con tutti i problemi che comportò il ritorno alla terra, alle case abbandonate, al riprendere le attività commerciali… in quel contesto le tensioni sociali non mancavano.

Quando Gesù legge Isaia 61, la situazione a Nazaret era certamente diversa, anche se, come sempre d’altronde, non mancavano i poveri, c’erano categorie sociali a rischio povertà come i ciechi e c’era gente oppressa dai soprusi e vessata dalle tasse dagli occupanti romani… Isaia descrive in maniera alternata persone che sono in difficoltà interne al popolo e sono appunto i poveri e i ciechi; e persone che soffrono a causa delle ingiustizie e delle oppressioni che sono causate dai nemici esterni, appunto Isaia parla di prigionieri, di oppressi da parte dei nemici del popolo, che al tempo di Gesù erano appunto i dominatori romani, e non solo.

In questa «epifania di Nazaret» conosciamo dunque un altro significato della salvezza portata da Gesù nel momento in cui incontra persone sofferenti, povere, in difficoltà. Lo sguardo di Gesù non è rivolto anzitutto al peccato delle persone, ma alla sofferenza che ne rovina la vita. La prima cosa che tocca il suo cuore non è la denuncia del peccato, della trasgressione, ma il dolore, l’oppressione, l’umiliazione sofferti da uomini e donne.

Gesù si sente consacrato con l’unzione dello Spirito di Dio che si preoccupa di chi sta male, di chi soffre. È questo Spirito a spingerlo a dedicare tutta la vita a liberare, a guarire, a perdonare.

Non sempre questo è stato anche il programma dei cristiani, anzi la teologia cristiana tante volte ha rivolto la sua attenzione più al peccato delle creature che alla loro sofferenza. «La dottrina cristiana della salvezza ha drammatizzato eccessivamente il problema del peccato, mentre ha relativizzato il problema della sofferenza» (J. B. Metz).

Ma il Dio di Gesù non è un Dio della colpa, da questo ci salva Gesù, piuttosto è il Dio della tenerezza, che si fa carico della sofferenza umana. Non vivere la tua povertà come una colpa, la tua malattia come una condanna… non è Dio che ti castiga! Anzi, Gesù è dalla tua parte.

Ma poi ci sono anche gli oppressi, coloro che sono vessati, che subiscono ingiustizia da altri, anche per loro Gesù ha una parola di speranza. E dicendo nell’incontro con l’assemblea che questa parola si compie oggi, Gesù riconosce come non ci possa essere autentica liberazione personale, interiore, senza che ci sia anche una liberazione degli altri, del mondo che ci circonda.

Non puoi pensare di stare bene tu in casa tua, col tuo villaggio, con la tua cerchia e di poter chiudere fuori dalla porta il mondo con tutte le sue contraddizioni. È pura miopia, è impossibile, perché tutte le ingiustizie e oppressioni ti rientreranno dalla finestra.

Se non vedi l’oppresso dall’iniquità, dalla corruzione, dalla dipendenza, se credi di creare un’isola felice circondata da muri alti che impediscono alle brutture del mondo di entrare, sei come un cieco che non vede che tutto il mondo è collegato, è globalizzato, siamo interdipendenti, e forse converrebbe lavorare perché ci sia una giustizia e un’equità per tutti e non solo per i pochi che la pensano come te.

Come diceva Martini, in questi tempi di globalizzazione, il cristiano deve imparare a globalizzare l’attenzione alla sofferenza dei poveri della terra.

Sapete come ha reagito la gente di Nazaret a queste parole di Gesù? Lo prendono e lo portano sul ciglio del monte pronti a buttarlo di sotto! Ma egli passando in mezzo a loro si mise in cammino.

Gesù dà così inizio all’ «anno di grazia del Signore»: da quel giorno ogni anno può essere un anno di grazia, ogni anno c’è una carezza che il Signore dà a tutti, nessuno escluso, ed è la possibilità di aprire il cuore e di cambiare vita.

Qualunque sia la causa della povertà, della schiavitù, della dipendenza… il Signore offre a tutti la possibilità di essere liberati: non situazione che possa ridurre del tutto l’uomo a semplice oggetto da sfruttare, perché ogni uomo custodisce in sé, anche se talvolta offuscata, l’impronta di Dio.

Preghiamo insieme perché questo sia un anno di grazia, non chiediamo la salute, la pace solo per noi ma per tutti. Lo Spirito di Dio continui a sospingere i nostri passi nell’amore e nella cura per i poveri, per chi fa fatica, per chi soffre, per apprendere la grammatica della fraternità.

Preghiamo perché nella Chiesa ci siano sempre più spazi e occasioni per dialogare, discutere, confrontarsi. Un anno di grazia, appunto.

(Lc 4, 14-22)