IV DI AVVENTO - Lc 19, 28-38


audio 5 dic 2021

Ma non poteva farsi i fatti suoi? Perché Gesù decide di compiere un’azione così eclatante, così dirompente come quella che abbiamo ascoltato, con tutti i rischi e i pericoli cui poteva andare incontro, come di fatto poi è accaduto? Perché, Gesù?

Un modo sicuro per complicarsi la vita è proprio questo, occuparsi degli altri, della città.

Viceversa un modo per vivere tranquilli è farsi i fatti propri. Gestirsi le proprie cose, i propri affari, la propria famiglia… Così, quasi senza rendercene conto, abbiamo così piegato l’altissimo ideale della pace all’idea del disimpegno.

Quando diciamo: “voglio stare in pace”, “lasciatemi in pace”, diciamo proprio questa falsa concezione della pace: crediamo che farsi i fatti propri possa essere fonte di pace e di tranquillità.

Il gesto di Gesù va nella direzione contraria, perché anzitutto poteva continuare a predicare, a guarire, a fare quello che andava facendo in quegli anni e invece entra in città, affronta il cuore, il centro vitale del suo popolo, perché Gerusalemme è più di una città, è simbolo di appartenenza e di convivenza, è segno di identità, luogo della promessa divina realizzata, e l’affronta quasi provocandola.

Così facendo Gesù si complica la vita. Se avesse pensato a sé stesso, al proprio futuro, ai propri interessi, avrebbe evitato di provocare le autorità, di sfidare l’istituzione, avrebbe evitato di costringere la gente a uscire allo scoperto, quella gente di cui si era preso cura nel suo ministero, ma che cambia facilmente idea schierandosi con chi conviene di più.

Perché dunque Gesù? Ne è valsa la pena? Cosa ti spinge a fare un gesto dalle conseguenze facilmente prevedibili?

Qualche versetto dopo Luca così descrive lo stato d’animo del Signore: Quando fu vicino alla città, pianse su di essa e disse: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno la via della pace… (Lc 19, 41-43).

La scena dell’ingresso di Gesù piena di entusiasmo e di applausi è improvvisamente interrotta da un pianto dirotto. Ma è importante perché Luca ci dice che c’è un rapporto importante tra quello che Gerusalemme rappresentava e la missione e la vita di Gesù.

Il piangere di Gesù non è un pianto che attiene a un momento di particolare emotività o sensibilità, dobbiamo leggerlo insieme con l’ingresso solenne che dice il carattere profetico delle due azioni: Gesù entra come profeta perché si introduce in città a dorso di un puledro d’asino, come avevano annunciato i profeti del Primo testamento e non a cavallo come facevano i generali e i condottieri militari.

Infatti il pianto di Gesù sulla città è un atto pubblico, quando noi invece se dobbiamo piangere ci ritiriamo nell’intimità o cerchiamo la spalla di un amico.

Perché piangi dunque Gesù? Per il degrado della città, per la sua rovina morale e religiosa? Piangi sulla città come tale, su quello che la città rappresenta, appunto una storia, un futuro, una speranza che sembrano essere svanite? La risposta è nelle sue stesse parole: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno la via della pace. Gesù piange perché Gerusalemme non ha compreso la via della pace!

Gesù è consapevole che la città non accoglie il Vangelo, non accoglie la via che lui ha indicato per la pace, quella via che le Beatitudini hanno descritto chiaramente: la mitezza, la non violenza, la giustizia, il perdono, la fraternità.

Ecco allora l’idea sapiente della Chiesa: arrivati alla Quarta domenica di Avvento ci invita a ricordare il prezzo della pace che canteremo con gli angeli nella notte di Natale: quel Gesù che nasce nella stalla di Betlemme, è lo stesso che di lì a qualche anno entrerà in Gerusalemme… e non ne uscirà vivo! Almeno secondo le intenzioni delle autorità e degli uomini di potere che lo crocifiggeranno. Ecco se vuoi festeggiare il Natale, ricordati di chi stiamo parlando.

Parliamo di Gesù che entra in città, entra nella vita e nelle relazioni della città con un atteggiamento provocatorio: non viene a cavallo come gli imperatori, non viene con l’auto blu come i potenti di oggi, così come nemmeno sul calvario avrà la scorta delle guardie del corpo, ma viene a dorso d’asino.

Che è una contestazione gentile dell’arroganza del potere e del dominio: l’uomo che non ha un posto dove posare il capo (Lc 9,57-58) è un re che non possiede nulla e deve chiedere in prestito un asino. Abbiamo sentito l’insistenza sui particolari: Il Signore ne ha bisogno. È un re che ha bisogno che qualcuno gli presti un asino.

È lo stesso animale che ritroviamo nel presepe, probabilmente perché aveva portato la Madre, oggi è qui a ricordarci che il Signore non entra nella vita della gente con la protervia e la prepotenza, non abita la città con la violenza e l’arroganza.

L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, compimento di una vita iniziata dal monte delle Beatitudini, è la contestazione radicale di ogni mondanità.

Perché quando entri nella vita e nelle relazioni con gli altri con fare trionfante vuol dire che qualcuno comunque viene umiliato. E questo qualcuno è pur sempre un essere umano e il Signore viene anche per lui.

Impariamo allora anche noi ad entrare nella vita, nella storia, nella città, nel mondo nel nome del Signore, ovvero come vi entra lui, consapevoli che il più grande cambiamento del mondo avviene nel momento in cui ciascuno di noi cambia.

La salvezza del mondo è possibile sempre per il fatto che qualcuno comincia a cambiare. Gesù viene nella città e la cambia dal di dentro, mettendosi in gioco, senza aspettare che tutta Gerusalemme cambi, ma donando sé stesso.

La compassione di Gesù per Gerusalemme, il suo com-patire che significa letteralmente condividere la sofferenza della città, è il motore della sua azione, è ciò che muove le sue decisioni.

Prima di fare qualcosa per gli altri, è necessario lasciarci raggiungere dalla sofferenza dell’altro, dal suo dolore, dalla sua ferita.

Solo se sento mia la fragilità dell’altro e addirittura quella di una città, se la ospito dentro di me, posso superare l’indifferenza, posso aiutare senza mortificare, posso sperare nel futuro.

La via della pace passa da qui. Non dal farci i fatti nostri. La politica più alta o percorre la via della condivisione dei problemi, la compassione con chi rimane indietro, oppure si ritrova sotto il giudizio di Cristo: Non hai compreso la via della pace.

La politica, intesa come il governo della polis, del bene comune, come ci insegna papa Francesco e la dottrina sociale della chiesa, è la più alta forma di amore perché non si rivolge solo ai vicini, a quelli che la pensano come me, a coloro che se lo meritano, ma guarda a tutti, si lascia toccare dalle fragilità altrui, cerca di compensare le ingiustizie, dà la parola a chi non ha voce.

Il pianto di Gesù ha ben chiara quale visione di città sia necessaria: una città che dà da mangiare agli affamati, dà da bere a chi ha sete, dà un tetto a chi non lo ha, cura i malati che non sono clienti di un’azienda, progetta percorsi per i carcerati che non sono semplicemente da punire e rinchiudere. Una città che riveste di dignità chi l’ha perduta.

Insomma c’è bisogno di una compassione politica che non è semplicemente un sentimento, ma una visione di città, di umanità, di società che tanto manca oggi.

È necessario un cuore “politico”, come quello di Gesù che provando compassione per la città giunge fino a donare tutto sé stesso per lei.

Per la città, per la polis appunto, dove “politico” è il contrario di “monolitico”, vale a dire di un atteggiamento indifferente e arroccato, chiuso e ripiegato su di sé e sui propri interessi o su quelli della propria corporazione.

Mi verrebbe da tessere un elogio dell’asino, perché non dobbiamo mai smettere di fare la sua fatica nel lavorare giorno dopo giorno nella nostra professionalità, nel nostro lavoro, ma anche nel mondo della cultura, della musica, dell’arte e della letteratura per far entrare nelle dinamiche della città un poco di Vangelo con lo stile di Gesù: vale a dire con mitezza, gentilezza, rispetto e con la tenacia che quella povera bestia ci sta a ricordare.

(Lc 19,29-38)