XII DOPO PENTECOSTE - Mt 23, 37 - 2


(2Re 25, 1-17; Mt 23,37-24,2)

La pagina di vangelo che abbiamo ascoltato è conosciuta come «il lamento di Gesù su Gerusalemme» e sono parole davvero struggenti: Gerusalemme, Gerusalemme quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali… Pare di ascoltare Mosè che nel Deuteronomio così descrive il modo di fare dell’Eterno con il suo popolo liberato dall’Egitto: «Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e prese il suo popolo, lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,11 e così Rut 2,12). Ma è soprattutto nei Salmi che ritorna con frequenza l’immagine delle ali di Dio come luogo di protezione e di rifugio (Salmo 17,8: Custodiscimi come pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali; sal 36,8: Quanto è prezioso il tuo amore o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali; sal 61,5: Vorrei abitare nella tua tenda per sempre, vorrei rifugiarmi all’ombra delle tue ali; sal 63,7-8: Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali; e ancora sal 91,4: Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio…).

Gesù per descrivere il suo rapporto con Gerusalemme, ricorre alle parole con cui era abituato a pregare ogni giorno, attinge alla preghiera della sua gente, del suo popolo, ai salmi appunto per dire il suo modo di porsi nei confronti della città santa. Addirittura, in un altro passo del vangelo di Luca si dice che Gesù, dopo essere stato accolto nella città santa con entusiasmo come in un corteo regale, scoppiò in pianto e disse: Se avessi compreso quello che porta alla pace, ma ormai è stato nascosto ai tuoi occhi… (Lc 19,42). Il lamento di Gesù ritorna mentre sale il Calvario, quando incontrando alcune donne che piangono su di lui, dice loro: Figlie di Gerusalemme non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli… (Lc 23,28).

Mi sembra che queste parole dicano bene il profondo rapporto tra Gesù e Gerusalemme. Un rapporto che lega profondamente il destino del Messia con quello della città stessa e che ritorna spesso nelle pagine bibliche secondo una tradizione che lega lo stato di salute di Gerusalemme con il benessere o il malessere del popolo intero.

Infatti anche la prima lettura, tratta dal Secondo libro dei Re, ci fa rivivere un momento drammatico per Gerusalemme. Inutilmente il profeta Geremia aveva invitato i re di Gerusalemme a una politica diversa, e invece nei mesi di luglio e agosto del 587 Nabucodonosor iniziò l’assedio alla città, e come abbiamo ascoltato la saccheggiò, distrusse il tempio, e in questa circostanza l’arca dell’alleanza andò persa per sempre. Nabucodonosor, dopo aver inseguito il re Sedecia fino a Gerico e averne ucciso tutti i discendenti, gli cavò gli occhi e lo deportò insieme con gran parte della popolazione a Babilonia, ponendo così fine alla discendenza davidica.

Soppressa la monarchia, con la distruzione del Tempio cessarono i sacrifici e tutta la vitalità religiosa e sociale che vi girava intorno… è questo il periodo noto come la cattività babilonese, un periodo destinato dunque a cancellare una tradizione spirituale e culturale.

Gli esuli dovettero organizzare la loro vita religiosa senza Tempio e senza tutto quello che si faceva in esso (sacrifici, pellegrinaggi, feste…), ma grazie all’apporto dei profeti Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia l’esilio fu un tempo importante di riflessione e di riorganizzazione sociale e religiosa, di raccolta e di rielaborazione delle tradizioni poi redatte nei libri biblici (basti pensare alla redazione finale del Pentateuco) [1].

Qualche anno dopo la morte e risurrezione di Gesù la storia sembra ripetersi: all’inizio del luglio del 70 nel tempio viene compiuto l’ultimo sacrificio quotidiano, perché a metà agosto Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, sferrò l’assalto finale al tempio dove si erano ritirati gli ultimi difensori e lo diede alle fiamme. I morti furono centinaia di migliaia, nel disastro scomparve definitivamente l’intera struttura socio-religiosa che faceva capo al tempio, che era stato ricostruito da Erode, scomparvero i sadducei, gli esseni, gli zeloti, il sommo sacerdozio e il sinedrio di Gerusalemme…

Gerusalemme, come vediamo ancora oggi, è stata una città sempre molto amata e per questo molto contesa. Tale destino ha avuto inizio 3000 anni fa, quando la città non contava forse più di 2000 abitanti. La sua esistenza come capitale pacifica, pur in mezzo a grandi travagli e sofferenze, è durata circa 400 anni. Ma per il resto della sua storia è stato un susseguirsi di invasioni e di conquiste: Egiziani, Babilonesi, Persiani, Tolomei, Seleucidi, Romani, arabi, cristiani d’Occidente, sultani egizi, turchi, sino agli eventi recenti. Come si esprime André Chouraqui «durante tutta la sua storia Gerusalemme è la città martire, la grande crocifissa». Quando si incontra Gerusalemme si incontrano le tracce e i simboli vivi di questa storia che continua anche oggi.

Gesù stesso assume su di sé questa storia drammatica, abbracciando con lo sguardo il destino di questa città, che è immagine del destino del mondo. Martini ripeteva spesso che «Se ci sarà pace a Gerusalemme, ci sarà pace in tutto il mondo».

Infatti Gesù si rattrista e si rammarica, fino ad arrivare a piangere su Gerusalemme, perché la città non conosce pace. Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia… e non avete voluto! Gesù suppone qui un rapporto tra l’accoglienza della parola di Dio e la pace nella città. La pace di Gerusalemme è connessa con la fede di Gerusalemme. Occorre che ne precisiamo bene il senso.

Il lamento di Gesù su Gerusalemme, arriva alla fine del cap. 23 di Matteo, all’inizio del quale Gesù si rivolge contro i farisei e gli scribi per ben sette volte in questi termini: Guai a voi ipocriti, guai a voi guide cieche! Quindi per sette volte Gesù critica apertamente e senza mezze misure coloro che tengono in piedi la città sull’ipocrisia, sull’apparenza, che vivono sulla formalità del culto e dell’osservanza esteriore e non si curano della conversione del cuore, della pratica della giustizia, dell’equità. Gesù conclude la sua invettiva con un’immagine durissima: Serpenti, razza di vipere come potrete sfuggire alla condanna della Geenna?

Da questo modo di vedere di Gesù, la rovina di Gerusalemme, e con essa quella di tutte le città dell’uomo di cui è simbolo, non è conseguenza del castigo di Dio che è arrabbiato per l’infedeltà della città e quindi le manda sciagure di ogni tipo. La mancanza di pace e di tranquillità trova la sua origine anzitutto nella divisione avvertita dentro le persone, nella separazione tra l’esteriorità e l’intimità, nella distanza tra l’osservanza formale e la coscienza, tra pratica religiosa e impegno civile, nella mancanza di rispetto per la giustizia.

È questo è definito nella scrittura come un atteggiamento diabolico che divide l’uomo, che spacca la fiducia e il rapporto tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e la donna, tra gli uomini come fratelli e sorelle e lacera la coscienza stessa di ciascuno di noi… e chi è che fa questo? La tradizione biblica dice il serpente e non a caso Gesù si rivolge ai suoi avversari che vivono su questa divisione chiamandoli: razza di vipere! A questa immagine delle vipere, Gesù oppone il suo paragonarsi alla gallina, alla chioccia che vorrebbe invece riunire e raccogliere i pulcini sotto le sue ali. Potremmo dire che alle vipere della Giudea, Gesù si oppone come la chioccia di Gerusalemme!

Non ha avuto grande successo questa figura della chioccia nell’arte cristiana, ma dobbiamo dire che non l’ha avuta nemmeno nella prassi di ogni giorno, ancora oggi dentro di noi, intorno a noi, nei luoghi di potere si preferisce l’ipocrisia, assecondare l’apparenza, stare dalla parte del potente di turno e umiliare il povero.

Lo sguardo di Gesù per Gerusalemme è lo sguardo che rivolge oggi alla nostra città, al mondo intero, ed è uno sguardo che lamenta la divisione dei cuori, la separatezza del culto dalla vita… e che al tempo stesso ci chiama ad un impegno maggiore per coltivare appunto la profonda unità tra coscienza e azione morale, tra la preghiera e la vita, tra pratica religiosa e impegno per la città, tra interessi personali e passione per il bene comune.

Ma impariamo dal Cristo, perché nonostante sia rifiutato non abbandona Gerusalemme, anzi vi entra per morirvi. Egli sa che a prezzo della sua vita, della testimonianza del suo amore inerme e rifiutato dalla città, ha gettato in quella terra intrisa di sangue il seme della pace e della riconciliazione, garanzia di futuro per l’umanità promessa.

Preghiamo insieme oggi per chiedere al Signore per noi questa sua fedeltà che è stata anzitutto fedeltà al Padre e fedeltà all’uomo. Preghiamo perché possiamo essere al contempo fedeli a Dio e fedeli alla terra.

 

[1] È l’inizio di quel periodo che viene chiamato il «giudaismo», che è un passaggio particolare nella storia dell’ebraismo. Si riferisce cioè al periodo appunto che inizia dall’esilio babilonese durante il quale le popolazioni di Giuda meditarono profondamente sulla propria fede e soprattutto trasferirono il punto centrale della loro vita religiosa dal sistema che vigeva nel Tempio di Gerusalemme a un altro: al culto della parola di Dio, alla trasmissione e alla redazione scritta della Parola che avveniva e tutto questo avveniva nella sinagoga. Il giudaismo costituisce una direzione irreversibile, infatti anche se nel 515 verrà consacrato il nuovo Tempio che rimarrà sempre inferiore al grande tempio di Salomone, alla classe religiosamente dominante dei sacerdoti che nell’ebraismo si trasmetteva di padre in figlio e aveva l’esclusiva del tempio, subentra un’altra categoria di laici che nella Bibbia sono chiamati scribi, nel senso che erano esperti nella Scrittura, dottori della Legge e all’interno dei quali si sviluppò intorno al II secolo a.C. fra gli altri quella categoria così ingiustamente vituperata ma importante anche per il cristianesimo, che è quella dei farisei.