IV DOPO PENTECOSTE - Mt 5, 21-24


audio 3 lug 2022

Sono trascorsi quasi due anni da quando papa Francesco ci ha fatto dono dell’enciclica Fratelli tutti. Un testo col quale vuole farci reagire di fronte all’odio e all’indifferenza che segnano il nostro tempo con “un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole” (FT, 6).

“Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli” (FT, 8).

Appunto, un sogno. Perché la domanda nel cap.4 della Genesi rivolta a Caino “Dov’è Abele tuo fratello?” è rimasta sospesa, nel senso che è una domanda che attraversa la storia, i secoli, i confini e le muraglie e arriva fino ai nostri giorni, ma è rimasta quasi sempre senza risposta.

Tu europeo, dov’è il tuo fratello africano, la tua sorella nigeriana che lasci affogare in mare?

Voi musulmani sunniti perché uccidete gli sciiti, tutti fratelli dello stesso Islam? Perché voi cristiani cattolici avete ucciso i fratelli valdesi? E voi uomini e donne bianchi, dove sono gli altri fratelli vostri, uomini e donne col colore diverso della pelle? E tu africano della Libia, come puoi ridurre in schiavitù un tuo fratello dell’Eritrea? Perché tu israelita che tanto hai sofferto, ora fai soffrire i palestinesi?

È la domanda rivolta alle grandi multinazionali, ai latifondisti, ai mercanti d’armi, ai politici, alle banche: Dov’è tuo fratello? Dov’è tua sorella?

È la domanda che Dio pone anche alla sua chiesa, così preoccupata del potere e dell’organizzazione da dimenticare il volto di Cristo nel povero, nel piccolo, nella donna, nell’escluso. È la domanda che arriva dritta a ciascuno di noi, anche se non abbiamo ucciso nessuno: Dov’è tuo fratello, dov’è tua sorella, dov’è colui che non sopporti, colui che invidi, colui che ignori e fai finta di non vedere?

Il sogno che papa Francesco ci consegna è perché non abbiamo ad arrenderci al mito che è sempre stato così e sarà sempre così. I miti fondativi delle civiltà spesso riconducono l’origine di una popolazione o di una città a una violenza fratricida. Il mito getta l’àncora nel passato e insegna la rassegnazione di fronte al fatto che le cose da sempre vanno in questo modo. Non c’è convivenza senza violenza. Non c’è umanità senza guerra.

Anche la Genesi ricorre al linguaggio del mito, ma qui il mito non insegna la rassegnazione, anzi vuole scuotere le coscienze con la domanda di Dio: Dov’è tuo fratello? Una domanda precisa. Dio poteva porne altre. Poteva ad esempio sollecitare il senso di colpa: cosa hai fatto? Come hai potuto? Mentre quella che pone l’Eterno è una domanda maieutica, costringe ad andare in profondità: certo che tuo fratello è sottoterra ormai, ma ora lui è più presente a te stesso di prima, te lo porti nella coscienza. Lo hai ucciso e forse pensavi di stare meglio senza di lui, ora in realtà tuo fratello è più presente a te stesso di prima: ti sovrasta in ogni pensiero, in ogni gesto, in ogni atteggiamento.

Dio non cerca neanche una qualche spiegazione: perché l’hai fatto? Cosa ti è passato per la testa? Oggi preferiamo indagare cosa abbia mosso Caino a comportarsi in quel modo: sarà stato un raptus o forse un colpo di gelosia… La domanda di Dio invece rimanda alla presenza del fratello anche nella sua assenza: dov’è? Perché anche se uccidi quel fratello, non puoi eliminare il fatto che siamo tutti fratelli. Siamo fratelli e sorelle infatti perché, come dice il termine greco (adelfoj), noi tutti veniamo dal grembo di nostra madre e in definitiva dal grembo della terra, della creazione. La vita è generata dal grembo di Dio.

Per questo siamo gli uni responsabili degli altri. Sembra che invece facciamo di tutto per sottrarci a questa responsabilità. E così noi ascoltiamo ormai indifferenti il fatto che Dio ci chieda conto delle decine persone morte a Melilla, enclave spagnola in Marocco, nel tentativo di attraversare la frontiera e arrivare in Europa.

Non rispondiamo a Dio che ci domanda conto delle 51 persone morte all’interno del rimorchio di un camion in Texas, senza aria e senza acqua. Venivano da Messico, Guatemala e Honduras e stavano tentando di entrare negli Stati Uniti.

Dov’è tuo fratello? Cosa rispondiamo? Cosa rispondiamo alla guerra fratricida tra Russia e Ucraina? Rispondiamo come Caino dicendo: Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello? Che è come dire: posso vivere senza di lui, posso fare a meno di lui.

Oggi rispondiamo con il mito della comunità identitaria che altro non è che una fraternità ridotta ai confini di un popolo, di una nazione. Proprio come è successo ai tempi del nazismo. Il mito della nazione, l’ideologia della fraternità nella Germania nazista, favoriva il riconoscersi fratelli germanici, ma non prevedeva alcuna responsabilità nei confronti degli altri, anzi.

Jonas discusse polemicamente con Heidegger sulla questione dell’appello “al destino tedesco” e alla “comunità di destino” da parte di Hitler, perché temeva la deriva, come poi di fatto avvenne, di un “essere con gli altri” ma senza responsabilità. Jonas pone al centro del suo pensiero il principio di responsabilità: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

Ascoltiamo la domanda di Dio. Siamo di fronte a una responsabilità storica, a una necessità ineludibile se addirittura Gesù nel Vangelo la pone al di sopra della religione, prima delle pratiche di culto: Va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi…

Gesù ci dice anzitutto che i due comandamenti – amare Dio e amare il prossimo – sono così legati che è impossibile rivolgersi a Dio e ignorare i fratelli. È ipocrisia pura pensare di essere a posto con l’Eterno con qualche pratica religiosa, e poi maltrattare il prossimo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (1Gv 4, 20).

E poi con molto realismo Gesù invita a cercare di riconciliarsi, perché la fraternità è sempre una ferita aperta, un cantiere mai concluso: abbiamo bisogno di avviare processi di riconciliazione, di dialogo, di comprensione. E non soltanto con il fratello che vedo, che è vicino e che vive e lavora con me… ma anche con il fratello che non vedo, quello con il quale mi mantengo in relazione attraverso istituzioni e strutture sociali.

Questa è la nostra responsabilità per il futuro del mondo e della società umana, ma dobbiamo ascoltare sempre la domanda da cui siamo partiti che è ancora e sarà sempre aperta: Dov’è tuo fratello?

Struggente la poesia della polacca Agnieszka Tworek  “Le ultime parole di Abele a Caino” (13.3.2022), in cui un ucraino si rivolge a un russo così:

«Un passero dal mio frutteto

è volato vicino a casa tua

mentre mi uccidevi

Fratello, perché semini

di rame e piombo

i miei campi ghiacciati?

Cosa può germogliare in primavera

da questi semi di proiettile?

In questa terra nera coltivo il grano

Potrei prepararti una pagnotta bella croccante

Perché i miei alberi da frutta hanno ferite da combattimento?

Perché le mie pecore e le mie mucche giacciono morte?

Perché le donne tessono i fili di cielo

per usarli come bende di garza?

Fratello, potresti ancora riportarmi

in vita, alla luce

se non bombardi l’ospedale

dove mia moglie incinta prega

che il primo pianto di nostro figlio appena nato

non sia anche l’ultimo

Perché mi sta cadendo

in bocca la neve

e perché è rossa?

Fratello, potresti

Ancora»

 

Sì, possiamo ancora diventare fratelli.

 

(Gen 4, 1-16; Mt 5, 21-24)