III DI QUARESIMA o Domenica di Abramo - Gv 8, 31-59
Non possiamo non notare come oggi, celebrando la «giornata internazionale della donna», una celebrazione che si è ridotta ormai a una festa di consumo tra mimose e cene per sole donne, che ha perso per strada quel coraggio che portò le donne dell’inizio del secolo scorso a impegnarsi per i diritti, il diritto di voto, le pari opportunità… Non possiamo non renderci conto come la parola di Dio appare essere soggetta essa stessa a un’ossessione di genere, oggi è propria tutta al maschile.
Mosè nella lettura dell’Esodo, Paolo nella seconda, Gesù e i giudei in Giovanni (8, 31-59). Certo l’evangelista adopera il termine «giudei» in una maniera particolare, diversa da quella che noi troviamo in altri passi del NT, specie nei vangeli, comunque è di genere maschile.
Potremmo pensare che il termine «giudei» indichi il popolo nella sua complessità, uomini e donne appunto, oppure la folla in genere presente in quel momento, e questo in alcuni passi è vero, ma nel nostro testo, così come molto spesso accade in Giovanni, il termine «giudei» designa i capi del popolo, la leadership religiosa, le autorità d’Israele. In questa accezione assume una declinazione negativa perché Gesù mette chiaramente in dubbio il fatto che le autorità israelite del suo tempo, i capi ebrei suoi contemporanei, quelli che appunto vengono chiamati «Giudei», siano realmente figli di Abramo!
A costoro Gesù rivolge parole durissime, mai ha rivolto parole simili a una donna, mentre non esita ad apostrofare costoro: «Voi avete per padre il diavolo»!
Se per un verso domina la questione di genere declinata al maschile, per contro dobbiamo riconoscere che Gesù pone in essere una forte coscienza critica che ci aiuta a non rimanere a un livello recriminatorio, ma provoca, uomini e donne, a domandarci se crediamo in lui o no.
E qui abbiamo un primo scoglio da superare per comprendere questa pagina di vangelo, perché noi oggi quando parliamo del «credere» lo intendiamo nei confronti di Dio. Nel nostro tempo quando si dice di qualcuno che è « credente» o «non credente», in genere lo riferiamo a uno che crede o che non crede in Dio.
In Giovanni non è esattamente così: nel vangelo l’incredulità significa non credere in Gesù. Giovanni radicalizza il problema della fede legandolo strettamente alla persona del Cristo: è di fronte a lui che nasce la divisione tra increduli e credenti.
È un contesto diverso dunque dal nostro, che è importante da tenere presente per comprendere questo dialogo che poi tanto dialogo non è.
Poi abbiamo un secondo scoglio da superare che è la comprensione del contesto in cui avviene questa discussione che è molto diverso da quello che abbiamo in mente noi. Vale a dire che se fino alla fine del primo secolo i discepoli di Gesù, erano una specie di gruppo all’interno dell’ebraismo, nel senso che frequentavano la sinagoga insieme ai loro connazionali di sabato e poi la domenica celebravano l’eucaristia…
Intorno al 95 d.C. incontriamo una crisi acuta di questi rapporti, quando Israele avverte il cristianesimo come qualcosa che gli è ormai estraneo e per questo espelle i cristiani dalla Sinagoga.
Quando Giovanni scrive il suo vangelo siamo appunto alla fine del 1° sec. e non possiamo non leggervi la situazione critica dei rapporti tra la chiesa nascente e la sinagoga, cosa che ritroveremo nella vicenda del cieco nato guarito da Gesù, che viene appunto espulso dalla sinagoga (9,34).
Noi oggi ascoltiamo questa pagina, ma la nostra condizione è diversa, se non opposta a quella descritta da Giovanni, perché a partire dal quarto secolo in avanti, quando il cristianesimo è diventato religione «licita» per l’impero romano, si è anche iniziata quella storia infausta di persecuzione e discriminazione del popolo ebraico che ha avuto tutte le conseguenze a noi ben note e che comunque è poi sfociata nella Shoà, nel terribile tentativo di annientamento del popolo ebraico sotto i nostri occhi.
Così noi oggi rileggendo questa pagina, dobbiamo collocarci in quel contesto e cercare di capire in profondità le ragioni della fede e dell’incredulità, i motivi di questo scontro che ha lacerato la coscienza di Israele perché è uno scontro avvenuto, non dimentichiamolo, all’interno del popolo d’Israele, Gesù infatti era ebreo ed è rimasto ebreo per sempre e tutti quelli che sono diventati cristiani all’inizio, erano tutti, senza eccezione, degli ebrei.
Superati questi due scogli (i giudei e il contesto), appare ai nostri occhi un dato chiaro, evidente: Gesù il Cristo, il Messia che dovrebbe venire per unire, per fare dell’umanità un’unica famiglia amata da Dio, in realtà divide! E non divide maschi e femmine, un popolo da un altro popolo, una cultura da un’altra cultura, la divisione è trasversale: divide i credenti.
E questo è lo scandalo che dobbiamo registrare anche noi: Gesù è una provocazione. La parola del Cristo è la provocazione più sconvolgente che la storia possa registrare, perché arriva dentro i cuori e le coscienze a fare verità.
C’è una verità che rende liberi e la verità è lui che rivela che Dio ha tanto amato il mondo… (3, 16). Alla base del mondo, dell’essere, della vita e di tutto ciò che esiste, c’è un amore ed è quello che noi chiamiamo Dio. Credere in un Dio così è la verità che rende liberi!
L’incredulità dei contemporanei di Gesù, che è anche la nostra, è data dal fatto che non siamo in grado di lasciarci amare. C’è un amore per noi, con noi, su di noi. Questo ci rende liberi.
Naturalmente ci sono tante libertà, ma la libertà più grande è quella di lasciarsi amare e di amare. Non solo la libertà di pensare, neanche soltanto quella di credere, ma di amare, questa è la grande libertà portata da Gesù. Non si è mai tanto liberi come quando si è amati e si ama e non si è mai così poco liberi come quando si ama poco.
Il vangelo non è un libro di devozione, è una rivoluzione – se questo non termine non fosse pericolosamente inflazionato – o meglio è una continua provocazione per gli uomini e le donne religiosi di sempre, di ieri e di oggi.
È una provocazione perché non si accontenta di una fede di appartenenza, non sa che farsene Dio di una fede così, di una fede senza amore, senza cuore.
È una provocazione perché Gesù ha vissuto così la sua fede con un amore che lo ha portato a donare la sua vita: questa è una provocazione perché credere in un Messia sconfitto, che muore come moriamo tutti, che soffre, grida, patisce… credere che quell’uomo che ha patito ed è morto, in realtà non è lontano da Dio e Dio non è lontano da lui. Credere che in questa morte si compie qualcosa di grande che sfocerà nella risurrezione, credere che Dio non sia assente, anzi sia operante dentro questa sofferenza del Cristo, come avviene appunto nella risurrezione, e che non dà spiegazioni alla sofferenza, non spiega la croce, ma vi accende una luce, una speranza. Credere in un Dio così è scandaloso. Credere in un Cristo che non cerca il potere politico, economico, sociale, culturale, ma che si mette a lavare i piedi e spezza la sua vita come si spezza un pezzo di pane, questo continua a sconcertare ancora anche noi e non solo i Giudei.
Eppure questa è la verità di Gesù che ci rende liberi. Che poi è stata anche la libertà di Abramo, ma anche di Sara, non dimentichiamolo, perché si parla sempre di lui, ma chi è partito con lui lasciando una terra sicura e ricca? Chi ha vissuto con lui la sofferenza della sterilità, chi ha vissuto con lui la gioia di un figlio e ha condiviso il dolore di un figlio da consegnare a Dio? Sara, sua moglie. Ecco questa libertà Abramo l’ha vissuta perché amava Dio e si è lasciato amare da lui, ma anche perché accanto aveva una donna e insieme hanno fatto quelle che sono le opere che dovremmo imparare a dire essere «le opere di Abramo e di Sara».
Chiediamo al Signore di saper compiere anche noi le opere di Abramo e di Sara, ovvero di saper vivere la vita come obbedienza all’amore di Dio, è qui la verità che ci rende liberi.