IV DI PASQUA - Gv 10, 27-30
(At 20, 7-12; 1Tm 4, 12-16; Gv 10, 27-30)
Abbiamo appena ascoltato dalle parole di Gesù che le sue mani, come quelle del pastore, sono mani che proteggono e danno sicurezza, perché sono le mani stesse del Padre.
Paolo ricordava a Timoteo di avergli imposto le mani per renderlo partecipe della missione; e nella prima lettura abbiamo visto le mani della comunità degli Atti che spezzano il pane e, al termine del racconto, le mani di Paolo che abbracciano il ragazzo morto e per restituirlo alla vita.
Forse viene da qui il modo di dire che affiora talvolta sulle nostre labbra: «Siamo nelle mani di Dio». Perché dopo aver sostenuto tutte le fatiche necessarie, dopo aver realizzato tutto ciò che era nelle nostre possibilità, trovandoci di fronte all’ineluttabile, non ci rimane altro che affermare con una certa rassegnazione: «Siamo nelle mani di Dio», come a dire l’ultima àncora di salvezza, l’ultimo appiglio prima della catastrofe.
Quando abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile non ci resta che guardare in alto e con un misto di rassegnazione e fatalismo ripetiamo a noi stessi: «Siamo nelle mani di Dio».
Questo dice la nostra fiducia in lui, ma più nell’intento di scongiurare il peggio. Eppure a ben pensare nei giorni del triduo pasquale che abbiamo appena celebrato, in particolare nel venerdì santo, abbiamo visto Gesù venduto dalle mani di Giuda; Gesù consegnato alle mani violente dei suoi aguzzini e poi gettato nelle mani del potere religioso e politico, potere che poi se ne è lavato le mani…
Dov’erano in quei giorni le mani di Dio? Dov’erano quelle mani sicure del Padre di cui parlava Gesù?
Ai nostri occhi c’è una contraddizione, uno scarto, uno iato che è quello che misuriamo anche nella nostra vita quando diventa difficile riconoscere la bontà di Dio nel dolore, nella prova, nella sofferenza, quando la malattia, l’incomprensione, l’ingiustizia o addirittura l’odio ci fanno vacillare e vengono a mancare i nostri riferimenti sicuri.
Gesù stesso che diceva di essere una cosa sola con il Padre, è trattato come una cosa, eppure – e qui sta la differenza – continua a credere che nessuno potrà strapparlo dalle mani dell’Eterno.
Avete notato come la comunità dei discepoli descrive il motivo per cui si ritrova di domenica in domenica? Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane. Dopo la Pasqua i discepoli avevano finalmente compreso quel gesto che Gesù aveva fatto tante volte nella sua vita e che nell’ultima cena aveva assunto un’intensità del tutto particolare, quando prendendo il pane tra le sue mani lo spezzò dicendo: Questo è il mio corpo dato per voi (Lc 22, 19).
Ogni volta che spezziamo il pane, ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, prendendo tra le mani il pane santificato, prendiamo tra le mani colui che nelle mani del Padre ha consegnato ogni cosa.
Nel suo consegnarsi nelle nostre mani comprendiamo il dono di Gesù che è per la vita: noi viviamo ancora di quella consegna e in questo senso Gesù quale agnello consegnato al macello diventa per noi il pastore, la guida, il riferimento delle nostre vite e della chiesa.
Uno che dona la vita per te è degno di essere ascoltato, è credibile. Vuol dire che tu gli stai a cuore più di ogni altra cosa, di ogni idea, di ogni partito perché se mette in gioco se stesso per la tua vita, non ha altri interessi, altri poteri da inseguire.
Tu uno così lo ascolti. Mi sembra questo il senso delle parole di Gesù: Le mie pecore ascoltano e io le conosco ed esse mi seguono e nessuno può strapparle dalla mia mano. Quell’uomo, quella donna che si sente amata così cosa fa innanzitutto? Ascolta la voce, la voce del suo Signore, ascolta la voce del Cristo.
La metafora delle pecore non è un banale rimando all’intruppamento cieco e ottuso: troppe volte l’immagine del gregge è servita per dominare, controllare, tenere soggiogata la coscienza. Così come la metafora del pastore è andata via via nel corso del tempo a indicare colui che non fa entrare, chi si pone, più che come pastore, quale guardiano sempre pronto a controllare, a giudicare, a trovare l’errore. Uno così non è degno di essere ascoltato.
Quando un genitore arriva a dire: mio figlio non mi ascolta più, dice la fatica di comunicare con uno che si è chiuso nel suo mondo, la difficoltà a relazionarsi con uno che si è incaponito nelle sue posizioni, che si è indurito e non ascolta più. Ma dice anche la necessità di un cambiamento di relazione da parte nostra e di renderci conto che forse non riusciamo a far capire l’amore di cui siamo capaci.
Quando Paolo scrive a Timoteo, suo compagno fedele, figlio di mamma ebrea e di padre pagano e figura molto importante della Chiesa nascente, e gli chiede di essere di esempio nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza, al tempo stesso però gli ricorda di non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito mediante una parola profetica.
Paolo ricorda a questo giovane collaboratore di non disperdersi solo nell’attività apostolica, ma di vigilare su se stesso, ovvero di ascoltare sempre la Parola, perché la relazione tra noi e il Signore si costruisce dandosi tempo e concedendosi ascolto.
Cosa che Paolo fa instancabilmente, come ci raccontano gli Atti del apostoli. Abbiamo già visto che la fraternità cristiana di domenica in domenica si riunisce per spezzare il pane. Ma c’è una seconda cosa che la comunità compie ed è il mettersi in ascolto della parola, della parola dell’Apostolo.
Da questo quadretto veniamo a sapere che Paolo praticamente intrattiene la comunità per tutta la notte che dal sabato va alla domenica, al punto che il giovane Èutico, che stava seduto sulla finestra, stravolto dal sonno, cade dal terzo piano . Potremmo sbrigativamente dedurre che Paolo fosse oltremodo lungo e noioso.
Questo non ci è dato di saperlo, certo è che non siamo di fronte a un monologo dell’apostolo, il verbo greco (dialegomai) fa riferimento a una conversazione tra Paolo e i presenti. Paolo dialoga, ovvero ascolta e racconta, ascolta la vita della comunità e racconta la parola di Gesù, in un esercizio continuo di discernimento, di ricerca di ciò che lo Spirito di Dio va dicendo nella storia.
Una comunità così ha mani che ridonano vita. Nell’abbraccio di Paolo c’è tutta una chiesa che ascolta e dialoga, che ama e abbraccia sull’esempio del pastore Gesù, la cui unica preoccupazione e il solo recinto verso il quale conduce e che non esclude nessuno non è un luogo, è la vita, quella del Padre.